L’altra domenica ho messo ordine nel garage e ho tirato fuori la bici di mio suocero che mi ha regalato qualche anno prima di morire. Pinuccio, classe 1928, il vezzeggiativo non descrive bene un omone di un metro e ottantaquattro, campione italiano di canottaggio del dopoguerra mentre, invece, il soprannome che i figli e gli amici dei figli gli avevano affibbiato, lo descrive molto meglio: squalo bianco. Eh sì, a Pinuccio piaceva mangiare, e non ne faceva mistero. Con la sua erre moscia mi ricordava spesso che l’aveva fatta fare su misura, la sua bici e da buon milanese, che aveva lavorato tutta la vita e conosceva l’importanza del denaro, mi ripeteva spesso anche quanto l’aveva pagata: quasi il prezzo di una moto dei primi anni Ottanta. La bici di Pinuccio è stata anche il segno di una certa agiatezza, di chi, con determinazione e grandi sacrifici, era riuscito a mettere su famiglia, a ingrandire e portare avanti per oltre cinquant’anni l’azienda del suocero, morto prematuramente. Pinuccio è morto nel 2011, ma le sue parole e il suo amore per la sua amata Steibel mi riaffiorano prepotentemente. Mi succede ogni qual volta la porto a fare un giro, in verità non così spesso come vorrei. Gli oggetti ci sopravvivono, continuano a parlare di noi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, delle nostre personalità anche molte anni dopo. L’altro giorno ho provato a dire che avrei venduto la mia Leica, la macchina fotografica che mi ha seguito un po’ ovunque, e ho notato come mia figlia, con aria un po’ seccata e un po’ incredula – sa quanto ci tenga – si è opposta fermamente e ridendo mi ha detto che non potevo vendere la sua eredità. Gli oggetti che possediamo, per lavoro, per hobby, per passione, spesso parlano di noi più di quello che immaginiamo e non saremo ricordati per gli oggetti che abbiamo posseduto ma grazie anche ad essi.
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