L’autodistruzione dell’espressione artistica e le altre facce dell’ottusità talebana

1 de oct. de 2021 · 17m 5s
L’autodistruzione dell’espressione artistica e le altre facce dell’ottusità talebana
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Inclusività, culture e conoscenza, indipendenza. Queste parole ipocrite condannano gli afgani a un inferno dove i giovani che non avevano vissuto il primo periodo talebano di 20 anni fa scoprono...

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Inclusività, culture e conoscenza, indipendenza. Queste parole ipocrite condannano gli afgani a un inferno dove i giovani che non avevano vissuto il primo periodo talebano di 20 anni fa scoprono un mondo distopico che gli cancella ogni speranza, tutti i piani fatti, arrivano a distruggere le loro opere d'arte perché non li denuncino all'oscurantismo ignorante che fa pascolare le mucche nel loro Campus, dove invece i giovani non possono entrare e che è diretto da un giovane pastore senza laurea, né cultura.
I due preziosi oggetti in copertina sono stati pensati e prodotti da un giovane afgano che non può riprendere gli studi a pochi mesi dalla laurea, sono gli unici oggetti risparmiati dei prodotti della sua arte: gli altri li ha distrutti lui stesso. Condizionare la società attraverso la via dell'istruzione è sempre più difficile, ma ci sono esempi virtuosi: a dimostrazione che solo l'arte, la musica, la cultura – meglio se clandestina – possono contrapporsi alla chiusura, laddove gli unici che hanno a disposizione le armi sono i Talebani. Questo rende pericolosa la vita a Kabul, perché in qualsiasi momento possono portarti via tutto ciò che hai a seconda di cosa passa per la testa dei Talebani che si aggirano per le strade.

Le stesse restrizioni dell'esistenza libera colpiscono gli hazara di Daykundi, costretti a uscire dalle abitazioni costruite 50 anni fa per assistere alla loro distruzione; cacciati. Sono le prime vittime della pulizia etnica, che va a sovrappopolare Kabul, ormai allo stremo, perché cominciano a mancare i contanti e dunque il cibo; scarseggiano fondi anche per fuggire, per cui si innesca la speculazione di chi compra a un terzo del valore di beni che fino due mesi fa erano introvabili o impagabili per i prezzi al metro quadro (12mila euro prima della crisi era il costo medio di una magione, che ora ne vale soltanto 4mila). Su questa situazione si innestano questi profughi interni, che versano in una condizione ancora peggiore, dovendo sperare negli aiuti dell'Onu per avere indumenti e cibo.

La condizione odierna spinge tutti a tentare di fuggire, compreso il nostro interlocutore che vagheggia l'uscita, per sottrarsi anche alla leva di chi lo affronta dicendosi un combattente della jihad da 20 anni, mentre lui migrava e dunque ora dovrebbe invece farsi un po' di jihad, anziché tornare in occidente a lavorare per gli infedeli.
Tuttavia è difficile anche muoversi: nel senso che per ora non è impedito lo spostamento di chiunque, ma si è acuita la frattura etnica e la richiesta di pedaggi sulla strada (5 euro a botta è tantissimo per un taxista afgano), l'aria minacciosa, anche gli indumenti indossati alla moda dei Talebani da parte persino dei bambini e le armi esibite lo sconsigliano e spingono verso la guerra civile – come in fondo propenderebbero alcuni protagonisti tra le potenze locali. Tanto che alcuni hazara minacciano la ribellione... ma senz'armi e di fronte alla totale chiusura a qualsiasi discorso è un percorso difficile da immaginare.

Il sogno per i talebani da questo e dall'altro lato della Durand Line diventa un incubo per chi si sente straniero a casa propria, sia perché è il Pakistan il vero burattinaio (quindi di nuovo un agente esterno), sia perché viene espropriato da etnie avverse, nuovamente arroganti e strafottenti, prepotenti e onnipotenti, come 20 anni fa... al tracollo economico e privi di consenso, lontanissimi dalla società civile.
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Autor OGzero - Orizzonti geopolitici
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