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Recensioni dei film e notizie relative ad attori e registi
21 AGO. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7888
LA VITA DI FERNANDEL, L'ATTORE CHE HA INTERPRETATO DON CAMILLO PER IL CINEMA di Samuele Pinna
Scrivevo nel mio A dottrina con don Camillo come il protagonista di Mondo piccolo sia «una delle figure letterarie contemporanee più amate: è capace di indossare - è il caso di dirlo - i panni del sacerdote che tutti vorrebbero ed è anche in grado di trasmettere profondi insegnamenti». Al successo letterario dei racconti di Giovannino Guareschi è seguito quello cinematografico, grazie anche all'interpretazione magistrale di Fernandel. Non si può pensare al personaggio guareschiano senza immaginarsi il volto tanto caratteristico del comico francese.
La vita di questo straordinario attore è stata messa nero su bianco dal giornalista Fulvio Fulvi, a cui chiedo immediatamente da dove sia nata l'idea di stilare la biografia intitolata Il vero volto di don Camillo. Vita & storie di Fernandel (Ares).
«È stato concepito partendo da una mia curiosità personale: chi era quel simpaticone di Fernandel? Sapevo che era un attore francese dal sorriso largo, e basta. Un bravissimo don Camillo che sapeva portare bene la tonaca e rendeva sullo schermo il personaggio che avevo conosciuto leggendo da ragazzo i racconti di Guareschi. Ricordo gli spot su carosello in cui pubblicizzava un famoso cognac insieme a Gino Cervi... Mi occupo sin da giovane di cinema, la mia grande passione, e allora ho cercato di saperne di più procurandomi quei film che lui aveva interpretato e che in Italia erano poco conosciuti. Poi, volendo approfondire, mi sono accorto che non esisteva nessuna biografia di Fernandel edita in Italia. E così mi sono messo a scriverla io...».
Ragiono: la popolarità per Fernandel diventa ancor più grande grazie alla personificazione del parroco della Bassa, sebbene fosse un artista già affermato in Francia quando fu scelto per quel ruolo.
«Sì - mi viene confermato -, era già popolarissimo per aver interpretato circa 120 film nel suo Paese, fu scoperto da un intellettuale della Provenza, la sua regione, Marcel Pagnol, scrittore e drammaturgo: fu lui a lanciarlo nel mondo del cinema. Ma Fernandel, cioè, all'anagrafe del Comune di Marsiglia, Fernand-Joseph-Désiré Contandin, aveva cominciato con le macchiette del "vaudeville", in una piccola compagnia teatrale con il padre e il fratello, girando con un camioncino i teatrini della Provenza. È stato il regista Julian Duvivier a volerlo come don Camillo nel primo film, uscito nel 1951».
È risaputo che a Guareschi inizialmente Fernandel non piaceva, ma poi ha ceduto davanti alla sua bravura. Desidero conoscere ancora qualcosa del pretone dalle mani grosse come badili.
«Don Camillo dal punto di vista letterario è un personaggio complesso, un esempio di sacerdote che ama il popolo e per la sua gente si impegna, mettendoci la faccia... Uno che ama il Crocifisso e ha consapevolezza di esserne un testimone, nonostante il carattere irascibile e un po' burbero. I film della saga guareschiana tendono a semplificare però certi aspetti presenti nell'opera dello scrittore di Roccabianca. Ma ne restituiscono la sostanza. In ogni caso, secondo me, don Camillo viene fuori così com'è, un pastore in mezzo al suo gregge, anche perché esiste Peppone, l'amico-antagonista, il sindaco comunista che trova proprio nell'autentica passione per la sua gente un punto di incontro con il parroco attaccabrighe, nonostante la distanza ideologica. Personaggi "consustanziali": non è possibile capire don Camillo senza Peppone. E viceversa».
A Fernandel i panni del sacerdote cascano a pennello, tanto che si racconta che sia stato scambiato più volte per un vero ministro di culto.
«Sì, parlando con i cittadini più anziani di Brescello, il paese emiliano dove sono stati girati i film, sono venuto a conoscenza di tanti aneddoti divertenti. Fernandel, nelle pause del lavoro, andava in giro per le vie con gli abiti di scena. Non si toglieva mai la tonaca e un giorno accadde che una bambina lo fermò chiedendogli di benedire la sua bambola. Lui cercò di convincerla che non era un prete vero, ma lei insistette e lui la accontentò. Il figlio del sagrestano della chiesa di Brescello mi ha raccontato che Fernandel dopo pranzo usava fare una pennichella e chiedeva di stendersi sul divano della canonica per una mezzoretta prima di ritornare sul set. In cambio ripagava con qualche banconota proprio il figlio del sacrista, che spesso faceva anche da staffetta tra l'attore e il regista portando messaggi all'uno e all'altro. Riceveva molte lettere dagli spettatori che lo trattavano come un vero prete. Ma nel mio libro si raccontano tanti episodi del genere».
Incalzo. C'è stato un incontro importante, quello con Pio XII.
«Papa Pacelli si era fatto proiettare in una saletta privata in Vaticano il primo film su Don Camillo, ne rimase colpito e chiese di incontrare l'attore. "Voglio conoscere il prete più celebre al mondo dopo di me", disse ai suoi collaboratori. Così accadde che un giorno, mentre Fernandel si trovava a Roma con la figlia, fu raggiunto da due "camerieri" di Sua Santità che lo invitarono il giorno dopo a un rendez-vous con il Pontefice. L'attore ne rimase stupito e, da cattolico com'era, si commosse. Nel mio libro racconto quel momento, grazie anche alla descrizione che lui stesso ne fece in un'intervista pubblicata su una rivista francese dell'epoca».
Non possono non domandare se Fernandel sia stato un uomo di fede.
«Fernand Contandin era un convinto cattolico, ebbe un'educazione religiosa, tanto che quando gli fecero leggere il copione del primo film, stava quasi per rinunciare alla parte perché, come si sa, ci sono dei brani - a mio avviso i più "decisivi" del personaggio - in cui don Camillo parla con il Crocifisso e Lui gli risponde. Pensava che fosse una cosa blasfema, ma poi si accorse che non era così...».
La religiosità - se è vera - s'incarna nel quotidiano, e pertanto voglio sapere qualcosa della sua vita privata.
«Fernandel è stato un marito fedele per tutta la vita (è stato sposato con Henriette per 46 anni) e padre di tre figli, due femmine e un maschio, Franck, anche lui attore (anche se di scarso successo). Con i figli era amorevole ma severo. E aveva un rapporto idilliaco con la suocera: fu lei infatti a dargli il nome d'arte Fernandel perché quando, da fidanzato, andava a trovare la sua Henriette, la mamma di lei lo presentava dicendo: "Et voilà, le Fernand d'elle!" ("Ecco il suo Fernando"). Da cui, appunto... Fernandel. Geniale no?».
Del resto, il genio si è mostrato anche nella sua lunga carriera che non si può ridurre ai soli lungometraggi su Don Camillo (basti pensare al film con Totò, due maschere all'epoca amatissime nei rispettivi paesi d'origine).
«Fernandel al cinema interpretava soprattutto personaggi bonari che rispecchiavano la sua naturale simpatia. Indubbiamente anche la faccia, dall'impronta cavallina, e la risata, influivano sulla caratterizzazione. Ma nella sua lunga carriera è stato protagonista anche con ruoli drammatici in film più o meno "impegnati". Senza contare il gendarme di La legge è legge, con Totò, del 1957 di Christian-Jaque, i più important, tra quelli che hanno avuto un'eco anche da noi, secondo me, sono stati il commesso viaggiatore Casimir nell'omonimo film di Pottier del 1950, Topaze di Marcel Pagnol, dello stesso anno e, dopo l'esordio nei panni del parroco guareschiano, Il nemico pubblico n. 1 di Henri Verneuil del 1953, La Vacca e il prigioniero di Verneuil del 1959, dove interpreta un militare francese catturato dai tedeschi e mandato a fare il contadino in una fattoria della Germania, Il giudizio universale di Vittorio De Sica, del 1961, Le tentazioni quotidiane di Duvivier, uscito l'anno successivo... Ma l'elenco potrebbe continuare!».
Saluto il noto articolista di Avvenire con un ultimo quesito: quale messaggio lascia in eredità la persona di Fernandel?
«Il messaggio che a mio giudizio ci ha lasciato questo grande attore è innanzitutto di una giovialità mai banale, una grande simpatia umana, un raro rigore professionale (morì praticamente sul set, mentre girava l'ultimo film della saga, Don Camillo e i giovani d'oggi: stava male ma volle lavorare ugualmente, svenne durante le riprese e pochi giorni dopo spirò nella sua casa di Parigi). Un'altra dote (un insegnamento da cui si dovrebbe imparare) è la capacita di essere un buon amico: così è stato con Gino Cervi, Jean Gabin, lo stesso Pagnol che lo lanciò come attore cinematografico. Era un uomo retto che aveva un senso del dovere e un amore per la famiglia. E noi spettatori "incalliti" dei film di Don Camillo, che non ci perdiamo mai una replica quando vengono riproposti in televisione, ce lo vogliamo ricordare sempre così, in tonaca, con la bicicletta, che parla con il Crocifisso (il quale gli risponde e "corrisponde") e litiga amorevolmente col compagno Peppone, che non era nemmeno tanto diverso da lui».
9 JUL. 2024 · VIDEO: trailer e recensione ➜ https://www.youtube.com/watch?v=wg5gOtK0drY
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7848
UNA NUOVA GUERRA CIVILE IN AMERICA E' POSSIBILE di Stefano Magni
"Civil War" di Alex Garland è un film che ha iniziato a far parlare molto di sé e a destare sospetti fin dalla diffusione del suo primo trailer, a dicembre. In un momento in cui tutto è complotto, è ovviamente nata una teoria della cospirazione anche su questa pellicola prodotta da A24. La tesi? Che il governo, d'accordo con Hollywood, stia preparando psicologicamente la popolazione alla guerra civile.
Come si vede sin dalle premesse, fantasia e realtà si sovrappongono perfettamente in questa epoca turbolenta, di massima polarizzazione dell'opinione pubblica americana e alla vigilia di uno dei voti più difficili di sempre. E quindi, complotto o no, sicuramente "Civil War" è il film giusto uscito al momento giusto.
Ma di che cosa parla "Civil War" e perché colpisce così tanto? È la storia di una giornalista veterana, Lee (interpretata dalla sempre più brava e sottovalutata Kirsten Dunst) che, al culmine di una seconda guerra civile americana, capisce che il presidente sta perdendo, nonostante tutta l'informazione ufficiale dica il contrario. E quindi vuole fargli un'ultima foto da vivo e un'ultima intervista.
Nonostante gli aerei non volino e tutte le autostrade siano chiuse, si imbarca in un difficile on the road, per raggiungere una Washington già assediata. E per farlo recluta uno spericolato corrispondente della Reuters (Wagner Moura), suo compagno di tante avventure. Che però, a sua volta, decide di portare con sé anche un anziano e saggio reporter di guerra (Stephen McKinley Henderson) e una ragazza impaziente, e anche un po' tanto invadente, che vuole diventare fotoreporter (Cailee Spaeny).
UN REPORTAGE DI GUERRA
Si tratta, dunque, di un film su un reportage di guerra che ricorda molto alcuni classici del genere, come "Un anno vissuto pericolosamente", "Sotto tiro", "Salvador" e "Urla nel silenzio". I quattro personaggi rappresentano quattro modi diversi di fare giornalismo. Lee è depressa, non tanto perché, nella sua carriera, ha visto cose che noi umani nemmeno immaginiamo, ma perché ritiene di aver fallito nella sua missione: "Ad ogni scatto di guerra, io vi dicevo: non fatelo". E invece il suo stesso Paese è precipitato nell'abisso della violenza che lei aveva visto e documentato nel resto del mondo.
Attraverso Lee, il regista Garland vuole veicolare un messaggio forte e chiaro: potrebbe succedere anche qui. L'intento è esattamente quello del romanzo di Sinclair Lewis "Qui non è possibile" (1935) dove lo scrittore si immaginava come anche gli Usa potessero diventare una dittatura, mentre fascismo, comunismo e nazismo già dominavano in Europa.
Negli Usa, negli anni '30, si ritenevano immuni da quel pericolo. Ma non lo erano. Le stesse tendenze, diffuse in Europa a sostegno delle dittature, erano presenti anche negli Usa e una dittatura sarebbe stata possibile, se solo fosse emerso l'uomo sbagliato al momento giusto. Gli Usa, da un secolo e mezzo, si ritengono immuni dalla guerra civile e sono lontani fisicamente da tutte le guerre. E invece...
Per mostrare a cosa gli americani andrebbero incontro, in caso di guerra civile, Garland adotta uno stile quasi documentaristico, benché ritragga uno scenario di fantapolitica. Già la prima scena di guerra che vediamo, una scaramuccia fra governativi e Boogaloo Boys è di un realismo disturbante.
In guerra emergono i caratteri peggiori, sadici ed estremisti hanno l'occasione per dare libero sfogo alle loro fantasie represse. E così abbiamo il benzinaio che tortura l'ex compagno di scuola perché è accusato di "sciacallaggio", il nazionalista che riempie le fosse comuni di "non americani", i fanatici che si trasformano in attentatori suicidi, le fucilazioni sommarie di prigionieri, ma anche regioni intere che vivono come se la guerra non esistesse. E che non vogliono neppure saperne di partecipare.
I NUOVI UNIONISTI E SECESSIONISTI
Ma da chi viene combattuta questa guerra e perché? Il regista ce lo lascia solo immaginare, ci dà pochissimi indizi. Innanzitutto ci racconta una guerra fra Stati, come la vecchia, unica vera Guerra Civile Americana del 1861-65. Per evitare una ripetizione troppo evidente, chiama le forze secessioniste "Ovest" (e il loro esercito è quello delle Western Forces). Ma in questo Ovest è compreso in realtà anche tutto il vecchio Sud, a partire dal Texas che, assieme alla California, ha dato vita alla nuova secessione, a cui ha aderito (forse, perché le notizie sono confuse) la Florida.
Già la scelta, non casuale, di mettere assieme Texas, Stato conservatore per eccellenza, con la California, epicentro del progressismo nel mondo, ci suggerisce che Garland non vuole parlarci dell'America di oggi, ma di un'America del futuro in cui la geografia politica è molto cambiata. E quindi ha cercato di evitare polemiche sterili fra conservatori e progressisti, nessuno dei quali si può identificare con i nuovi unionisti o con i futuri secessionisti (si riconoscono solo i Boogaloo, per le loro caratteristiche camicione hawaiane...).
Visto che la trama è ambientata a guerra inoltrata, le sue origini si apprendono solo in alcuni dialoghi fra i giornalisti e da indizi sparsi qua e là. È però assolutamente chiara la causa immediata del conflitto: un presidente che rischia di trasformarsi in dittatore. È un comandante in capo debole, insicuro, ma aggrappato al potere in modo ossessivo, un presidente che scioglie l'FBI, ma non esita a usare l'esercito contro le proteste civili.
E quando cerca di restare per un terzo mandato, allora gli Stati secedono. Non possiamo spoilerare nulla, non vi possiamo dire chi vince e chi perde, chi vive e chi muore, ma possiamo dirvi solo che all'origine della guerra c'è il caro vecchio principio di resistenza alla tirannide. Ed è questa l'America che ci piace, con buona pace dei complottisti.
20 MAR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7720
POVERE CREATURE: UN FILM OSCENO, CANDIDATO ALL'OSCAR di Ermes Dovico
«La violenza è mostrata in maniera ricorrente e/o significativa e/o morbosa con enfasi su dettagli come ferite, sangue, etc. e non è giustificata dal contesto narrativo. In particolare, la narrazione della violenza sessuale è esplicita, non coerente con il contesto. Particolare attenzione viene posta al potenziale di imitazione del comportamento mostrato (14+). Scene di sesso o riferimenti ad esso sono mostrati in maniera insistita ed esplicita (14+). L'uso di armi è insistito e non giustificato dal contesto. Particolare attenzione viene posta al potenziale di imitazione del comportamento mostrato (14+). L'uso di un linguaggio blasfemo/volgare è presente in maniera insistita e non giustificato dal contesto narrativo».
La scheda qui riportata è quella presente nel database del Ministero della Cultura - Direzione generale cinema e audiovisivo. E non riguarda un filmetto sconosciuto e da quattro soldi, bensì Povere Creature! (Poor Things), pellicola vincitrice dell'ultimo Leone d'oro e di diversi altri premi cinematografici, nonché candidata a ben 11 Oscar. Il film è diretto da Yorgos Lanthimos e ispirato all'omonimo romanzo di Alasdair Gray.
Al di là degli opposti giudizi che Povere Creature! ha fin qui suscitato - chi se ne dice estasiato, chi disgustato - le varie descrizioni concordano di fatto nel restituire il quadro di un film sostanzialmente pornografico, con una trama cupa tutta percorsa dal tema della liberazione sessuale. Da qui la serie di divieti e, in alcuni Paesi, anche di scene tagliate.
Basti dire che il divieto italiano per i minori di 14 anni è uno tra i più blandi al mondo. In diversi Paesi - dal Brasile al Giappone, dal Regno Unito alla Nuova Zelanda, da alcune regioni del Canada alla Corea del Sud - lo hanno proibito ai minori di 18 anni; a Singapore il divieto è innalzato fino ai 21. Negli Stati Uniti i minori di 17 anni possono vederlo solo se accompagnati da un genitore o un tutore adulto. La Motion Picture Association (Mpa), l'organizzazione che rappresenta i sei maggiori studi cinematografici statunitensi, gli dà appunto la classificazione "R" (la seconda, per gravità), «per contenuti sessuali forti e pervasivi, nudità cruda, materiale inquietante, sangue e linguaggio [osceno]».
LA SCELTA GIUSTA È NON VEDERLO
Noi abbiamo scelto di non vederlo, per ragioni precise. Non si tratta qui di dover confutare, per esempio, un cartoon con contenuti ideologici oppure un film che presenta in maniera deformata un caso storico e, quindi, da vedere per metterne in luce le incongruenze e le omissioni rispetto alla storia stessa (vedi il film di Bellocchio sul caso Mortara già descritto sulla Bussola). Di un film di cui è nota, a tutte le latitudini, la connotazione pornografica, una persona normale non direbbe che "va visto, perché bisogna valutarne la trama". Trama che peraltro si può leggere ovunque, in primis nei siti specializzati di cinema.
Il punto è che quello che passa attraverso i nostri occhi e le nostre orecchie non è "neutro" per la nostra dimensione corporale e mentale, né tantomeno lo è per quella spirituale. Né è ragionevole credersi, come si suol dire, "adulti e vaccinati", rispetto a certe immagini, scene, suggestioni e discorsi vari, perché il fatto che la nostra società sia impregnata di tutto ciò e che se ne siano viste tante non ti dà alcuna garanzia di immunità acquisita, allo stesso modo di come uno può essere ormai assuefatto a una determinata droga ma quella droga tale rimane: e continua a far male, anche inavvertitamente. Non per nulla i santi - si veda ad esempio quanto riporta san Giovanni Bosco nella sua biografia su san Domenico Savio (pp. 34-35) - raccomandano la custodia degli occhi e degli altri sensi.
Qualche cenno alla trama. Nella Londra vittoriana, una donna incinta, oppressa da un marito dispotico, si suicida gettandosi da un ponte. Il suo corpo senza vita è raccolto, sulle rive del Tamigi, dal dottor Godwin Baxter, che la resuscita trapiantandole il cervello della creatura che portava in grembo. Lo scienziato pazzo le dà il nome di Bella Baxter, interpretata da Emma Stone. La donna, un corpo adulto con un cervello da bambina, è come una tabula rasa, che non sa nulla di sé e deve (re)imparare tutto, dal parlare al relazionarsi con gli altri. Mentre le sue abilità motorie progrediscono lentamente, viene detto che la sua mente progredisce velocemente.
PERVERSIONI SESSUALI DI OGNI TIPO
In questo contesto, in una varietà di situazioni, Bella inizia a scoprire la sua sessualità. Seguono scene di masturbazione femminile, rapporti sessuali e lesbici, sadomasochismo, prostituzione in un bordello, voyerismo, con un padre che assiste ad atti sessuali in compagnia dei suoi figli minorenni... Eccetera. In tutto questo, sottolineano alcune recensioni su IMDb (Internet Movie Database), rimane l'ambiguità sull'età mentale di Bella al suo primo rapporto, che avverrebbe in teoria verso i suoi 16 anni - con un uomo molto più grande di lei - ma con un'ingenuità di fondo che lascerebbe quantomeno dubbi sul suo reale consenso. Un'ambiguità a cui contribuisce, evidentemente, l'idea di partenza, cioè del cervello di un bambino in un corpo adulto. Al di là delle intenzioni degli autori, una simile ambiguità, in un romanzo e un film sulla "liberazione sessuale", evoca temi cari alle lobby che vogliono normalizzare la pedofilia.
Eppure, Bella cresce e - ci informa Sette, il settimanale del Corriere - «schiaccia il patriarcato e conquista la libertà», imparando a manipolare gli uomini e «usarli per i propri scopi». Ancora, «danza libera e furiosa, rifiuta la maternità perché vuole diventare medico». Piuttosto svilente, come idea di femminilità.
Non sorprende che a Sette piaccia la pellicola di Lanthimos, ma rimane un bel punto di domanda sull'entusiasmo del sito della Diocesi di Milano, che titola: "Povere creature! Il film simbolo della libertà". Peccato che si tratti, come visto, di una libertà perversa. Il titolo, comunque, rispecchia la recensione-elogio, a firma di Gabriele Lingiardi, in cui non si capisce se la morale naturale conti ancora qualcosa e quale posto abbia l'anima in mezzo a tanta spazzatura: ma ammessa la confusione del singolo recensore, la Diocesi ambrosiana correggerà il tiro?
Anche in questo caso, come altre volte in passato, la Commissione nazionale valutazione film della Cei manca di dare un chiaro giudizio cattolico, capace di ben orientare le anime. Si limita a concludere che «per i temi e il linguaggio in campo, il film richiede un pubblico adulto», definendo lo stesso film, che pure mostra di apprezzare, «complesso, problematico, per dibattiti». Per dibattiti? San Paolo obietterebbe: «Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia neppure si parli fra voi - come deve essere tra santi - né di volgarità, insulsaggini, trivialità, che sono cose sconvenienti» (Ef 5,3-4). Starne alla larga.
6 MAR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7719
IL FILM SULLA GUERRA IN UCRAINA CHE LA SINISTRA VUOLE CENSURARE di Paolo Becchi
In questi giorni ho visto un film, non in una sala cinematografica ma in una sala di un Circolo privato, alla presenza di un folto pubblico interessato. Il testimone, un dramma cinematografico, non un documentario sulla guerra in Ucraina. Diciamolo subito, per evitare fraintendimenti di ogni genere, lo scopo primario del film è evidente: rovesciare la narrazione ufficiale, quella diffusa da tutti gli organi di informazione sulla guerra. È dunque un film di parte. Come di parte è, del resto, l'informazione che sinora, per due anni, abbiamo avuto attraverso i nostri canali ufficiali d'informazione. Non si vede, però, perché abbia fatto così tanto scalpore l'idea che il film potesse essere proiettato. Offre un punto di vista diverso, colpisce, fa discutere.
In breve, la storia: un affermato violinista belga si trova a Kiev proprio quando inizia l'operazione militare dei russi. È accompagnato dalla sua assistente, che andrà incontro ad una brutta fine, mentre lui - pur dovendo sopportare umiliazioni e violenze di ogni genere -riesce a scamparla. Chi ha seguito le vicende reali, se le troverà raccontate da quello che, a tutti gli effetti, è "il testimone". Alla fine, il testimone di fronte ai mass media che vogliono convincerlo ad ammettere che è tutta colpa dei russi, non può far altro che testimoniare quello che ha visto. Lui, in fondo, è stato salvato alla fine proprio dai russi, e a commettere angherie verso di lui e i cittadini ucraini sono stati proprio i componenti del ben noto battaglione di Azov.
GLI ABITANTI DEL DONBASS
La cosa del film che più mi ha colpito è quando alcuni abitanti del Donbass continuano a parlare la loro lingua naturale, il russo, mentre le milizie del battaglione non ammettono l'uso di questa lingua, perché in Ucraina "esistono solo gli ucraini e i russi non devono parlare la loro lingua". Il film è girato in inglese, con il voice over in russo, sottotitolato in italiano. Le uniche parti che sono girate in russo o in ucraino sono quelle in cui parlano i militari ucraini. Non conosco il russo, ma ho avuto il piacere di vedere il film con una collega slavista che conosce russo e ucraino e la cosa che lei ha notato, seguendo il film ovviamente in russo, è che a tratti ai miliziani di Azov scappano intere frasi in russo, a testimoniare quanto questa lingua sia radicata in Ucraina, non solo in Donbass.
Ma come si fa negare ad una popolazione addirittura la possibilità di usare la propria lingua? Come si può usare violenza contro i propri cittadini solo perché parlano la lingua dei nonni e dei genitori? È come se noi in Italia, a Bolzano, vietatissimo l'uso della lingua tedesca. Ovviamente non è soltanto una questione di lingua, ma quello è il primo elemento con cui si identifica una popolazione. Se neghi quel diritto, neghi tutti gli altri, se non concedi autonomia, è evidente che prima o poi si arriva alla secessione. I russi vogliono stare con i russi e hanno diritto di stare con i russi. "Stare con chi si vuole e stare con chi ci vuole". In fondo si tratta del diritto dei popoli ad autodeterminarsi, ed è quel diritto che hanno rivendicato per anni gli abitanti del Donbass. Questo lo si dimentica spesso nella narrazione di questo conflitto e almeno questo risulta in maniera molto evidente dal film. Forse è il messaggio più "pericoloso" per cui hanno cercato di censurare quasi dovunque il film.
UN CONFLITTO TRA DUE VISIONI DEL MONDO
Certo, oggi quella guerra locale ha assunto una dimensione globale, che va molto al di là della narrazione del film. Ormai si tratta di un conflitto non più tra Russia e l'Ucraina per un territorio limitato abitato soprattutto da russi, ma di un conflitto tra due visioni del mondo, quella dell'anglosfera, dell'Occidente, che vuole ancora dominare il mondo e imporre tutto a tutti, e quella della Russia, che vorrebbe tentare la costruzione di un mondo multipolare, che rispetti le tradizioni e i diritti dei popoli. Lenin, di cui ricorre in questi giorni il centenario della morte, era riuscito a trasformare la guerra, la Prima guerra mondiale, in una rivoluzione, quella bolscevica, Putin sta ora cercando di trasformare la guerra attuale in un'altra rivoluzione, che porti a un mondo non più governato da un'unica potenza, ma in cui esistono più civiltà che possano convivere pacificamente.
Questa è la mia chiave interpretativa e ovviamente chi legge potrà contestare tutto quello che ho scritto. Su una cosa, tuttavia, mi dovrà dar ragione, vale a dire che non si vede proprio perché il film non dovrebbe essere proiettato. E invece il Sindaco di Firenze ha chiesto di annullare la proiezione perché il film "incita all'odio e al genocidio del popolo ucraino". Credo che il Sindaco dovrebbe vergognarsi per quello che ha scritto. Ho visto il film, è un film di parte, come ho scritto, e non è l'unico nella storia del cinema ad esserlo, ma non c'è traccia di odio nei confronti del popolo ucraino, che semmai viene considerato vittima esso stesso del regime che ora governa quel Paese. Non c'è, dunque, alcuna ragione per vietare la visione di questo film, al quale come a Genova seguirà un dibattito durante il quale il Sindaco potrà dire tutto quello che vuole. Questa è sana democrazia. Non si possono criticare presunti regimi autoritari e poi adoperare gli stessi metodi.
28 NOV. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7618
GREEN BORDER: IL FILM ANTIPOLACCO, SPACCIATO PER CAPOLAVORO di Wlodzimierz Redzioch
Nell’estate del 2021 il dittatore bielorusso Lukashenko ha innescato una crisi migratoria con lo scopo di revocare le sanzioni europee contro il suo regime. Le autorità bielorusse avevano allora cominciato a concedere i visti per i cittadini di vari Paesi del Medio Oriente che venivano trasportati a Minsk e poi nei pressi della frontiera. Per la Polonia la crisi è iniziata a luglio 2021 con i primi tentativi di attraversare il confine polacco-bielorusso.
Ovviamente le autorità polacche sentivano il dovere di difendere la frontiera del Paese, che è anche la frontiera esterna dell’Unione europea, impedendo ai migranti di attraversarla, anche per non essere complici del traffico di esseri umani organizzato dai bielorussi. Purtroppo, i migranti, ispirati, istigati e aiutati dai servizi bielorussi, hanno attaccato il confine polacco, distruggendo le recinzioni alle frontiere e attaccando fisicamente i soldati polacchi. Gli agenti dei servizi bielorussi sostenevano apertamente i migranti accecando soldati polacchi con i laser, sparando in aria o partecipando alla distruzione delle barriere protettive. Tanti soldati polacchi venivano feriti dal lancio di pietre e altri oggetti. Ma di tutto questo si parlava poco.
Nel 2021 si sono registrati 40.000 tentativi di attraversare illegalmente il confine. Un anno dopo, meno di 16.000. Nel 2023 questo numero è nuovamente aumentato. Per controllare la frontiera con la Bielorussia, le autorità polacche erano costrette a schierare un numero enorme di militari di frontiera. La situazione è migliorata quando lungo la frontiera è stata completata l'installazione di una barriera elettronica. Successivamente, è stata costruita anche una barriera fisica. Ma la situazione al confine polacco-bielorusso resta tesa. È ovvio che i migranti non attraversano la frontiera spontaneamente: tutto è pianificato e organizzato dai servizi bielorussi.
Va detto che la Polonia dall’inizio della crisi è in costante contatto con Frontex, l’agenzia europea per la protezione delle frontiere, che sostiene costantemente le attività dei militari polacchi. Per il quartier generale della Nato, l'uso dei migranti da parte del regime di Lukashenko fa parte di una guerra ibrida. La destabilizzazione della Polonia con un’ondata di migranti sarebbe servita per preparare il terreno per l’intervento russo in Ucraina (la Polonia invasa dai migranti non avrebbe potuto ricevere i profughi ucraini).
LA FRONTIERA ORIENTALE DELL’UE
Purtroppo, la Polonia che difende la frontiera orientale dell’UE è diventata l’oggetto delle critiche degli ambienti che vogliono il mondo senza frontiere e incoraggiano l’immigrazione, anche clandestina. In Polonia tali critiche hanno preso la forma di attacchi ideologici al governo, al partito governativo PiS e ai militari che proteggono le frontiere. La crisi migratoria sulla frontiera polacco-bielorussa è diventata un pretesto per la lotta politica degli ambienti dell’opposizione liberal di sinistra, anche nella previsione delle importantissime elezioni che si svolgevano in Polonia nel mese di ottobre.
In questo contesto è stato prodotto un film di becera propaganda che tratta in modo strumentale gli eventi sulla frontiera: "Green Border" di Agnieszka Holland, una regista conosciuta anche per le sue simpatie di sinistra, critica del patriottismo e del cattolicesimo polacco e nemica della Chiesa. Il suo film, che vorrebbe sensibilizzare sulla tragedia dei migranti, crea un’immagine completamente falsa e offensiva delle guardie di frontiera polacche. Come ogni propaganda, questo film è privo di sfumature. Abbiamo a che fare con eroi positivi e personaggi assolutamente malvagi. I primi sono i migranti e gli attivisti che li aiutano, i secondi sono i funzionari polacchi: polizia e guardie di frontiera. Questi ultimi appaiono come primitivi volgari, aggressivi, spietati. Non lasciano entrare nel negozio una donna immigrata, gettano una donna incinta migrante dietro il filo spinato in Bielorussia, mentre di giorno sono galanti ed educati nei confronti delle donne polacche. Tuttavia, ci sono anche brave persone tra gli ufficiali in uniforme, ma solo quando agiscono contro gli ordini. Il film finge di essere un documentario, ma in realtà è un film menzognero; la regista non ha potuto fornire le prove di tanti fatti drammatici presentati sullo schermo che accusano pesantemente gli ufficiali polacchi.
Invece nel film si fanno tanti riferimenti all’attuale situazione politica: si parla delle proteste antigovernative e di uno specifico partito di opposizione. Si parla di una "marcia fascista" a Varsavia e di "fascisti nel nostro governo". Per di più, vengono menzionati i nomi veri degli esponenti del governo: del ministro Kamiński (ministro degli Interni) e del viceministro Wasik e sullo schermo televisivo appare il ministro Blaszczak (ministro della Difesa).
UN FILM ANTIGOVERNATIVO TENDENZIOSO
Il ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, ha scritto su X che «nel Terzo Reich i tedeschi producevano film di propaganda che mostravano i polacchi come banditi e assassini. Oggi per fare questo lavoro hanno Agnieszka Holland...». Il ministro ricorda anche il padre della regista, Henryk Holland, un militante comunista formatosi nell’Unione Sovietica: nel periodo stalinista divenne caporedattore del settimanale polacco chiamato "La lotta dei giovani", pubblicato dall'Unione giovanile comunista. Come afferma inoltre il ministro «la precedente retorica del padre e l'attuale retorica della figlia sono sorprendentemente simili». «Per Henryk Holland, i soldati dell'Esercito nazionale (AK - partigiani "bianchi") e delle Forze armate nazionali (l’esercito del governo polacco in esilio dopo la II guerra mondiale) erano dei banditi. Oggi la regista, vedendo sadici e criminali nella guardia di frontiera e paragonandoli ai tedeschi durante l'occupazione della Polonia, ripete il linguaggio di suo padre, tratto direttamente dalle regole di propaganda stalinista. Questo è il legame generazionale...» ha concluso il ministro. Per di più la Holland «chiama le autorità polacche "marmaglia bruna" e insinua che, se vince il PiS (il partito al governo), la Polonia sarà fascista».
Il film antigovernativo della Holland è stato finanziato e prodotto da numerose istituzioni straniere (tra cui la televisione tedesca ZDF/Arte) e dalla municipalità di Varsavia, il cui presidente è Rafał Trzaskowski, vicepresidente della Piattaforma civica, la principale forza d’opposizione.
Nei mesi precedenti la Holland è apparsa in uno spot elettorale dell'attivista di estrema sinistra Agata Diduszko-Zyglewska, lodandola per la sua lotta contro la Chiesa. Non tutti si ricordano che proprio Diduszko-Zyglewska, insieme a Joanna Scheuring-Wielgus, si sono recate in Vaticano con il loro "rapporto sulla pedofilia nella Chiesa" e hanno presentato a papa Francesco un bugiardo, un certo Marek Lisiński, come vittima di un prete pedofilo.
Adesso Holland porterà in Vaticano il suo film palesemente antipolacco, che dovrebbe essere premiato nell’ambito del Tertio Millennio Film Fest, malgrado lo sdegno dell’opinione pubblica in Polonia e la petizione contro la pellicola spedita in Vaticano.
All’estero questo film, spacciato per un capolavoro, contribuisce a perpetuare tra gli spettatori, che non conoscono bene la storia e la realtà odierna della Polonia, molti stereotipi antipolacchi, sfruttati non soltanto dai media bielorussi, ma anche da certi ambienti europei, principalmente tedeschi, ostili al governo conservatore polacco. Chi è tentato di vederlo, dovrebbe saperlo.
14 NOV. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7597
LA DISNEY FA RETROMARCIA: TORNANO I 7 NANI DI BIANCANEVE, QUELLI CLASSICI di Matteo Delre
Se n'è parlato molto quest'estate, anche grazie ad anticipazioni e rivelazioni da parte del Daily Mail: Disney sta lavorando su un remake di "Biancaneve e i sette nani". Che però non sarebbero più stati nani, ma un pegno pagato all'ideologia woke: alcuni dovevano essere di colore, altri di altezza normale, altri disabili, altri di genere misto e così via. Speculazioni? Si direbbe di no: le foto del quotidiano inglese apparivano genuine e la stessa protagonista del nuovo live-action, Rachel Zegler, aveva dichiarato senza mezzi termini che sì, sarebbe stato un prodotto politicamente corretto, «perché ce n'è bisogno». Previsto in uscita nel 2024, la nuova fatica del colosso americano vedrà la luce però soltanto nel 2025, a causa di uno sciopero organizzato dal sindacato degli attori contro gli studios di Hollywood, ma non è l'unico inciampo che la produzione si è trovata ad affrontare.
L'ennesimo stravolgimento di un prodotto culturale antico e amato, ancor più per il fatto che si tratti di una favola indirizzata ai bambini, aveva infatti suscitato un coro di proteste in tutto il mondo occidentale. Non è la prima volta che accade: nulla ormai si salva dalle "riletture" woke, dall'opera lirica al fumetto, passando per i classici della letteratura, tutto viene reinterpretato quando non addirittura riscritto per renderlo conforme ai parametri dettati da un'ideologia divenuta egemone, sebbene rappresentante di una o più microscopiche minoranze. Sotto il vello dell'inclusione, della parità, del rispetto, oltre agli stravolgimenti di opere d'arte del passato, si nasconde secondo molti anche un chiaro scopo propagandistico e di indottrinamento verso i più piccoli, com'è appunto il caso di Biancaneve.
MARCIA INDIETRO
Tuttavia, notizia recente, sembra che Disney abbia fatto marcia indietro: niente più nani politicamente corretti, tornano i sette simpatici piccoletti creati dalla fantasia dei fratelli Grimm e già in passato messi su pellicola dalla major americana in un indimenticabile cartone animato del 1937. Gli araldi del politicamente corretto incassano e fanno buon viso a cattivo gioco: indispettiti e un po' isterici, si concedono ora di urlacchiare contro gli "odiatori" che hanno speculato per settimane contro la casa produttrice americana, la quale giammai intendeva produrre un film buono al massimo per un gaypride. Un grande malinteso, certo, come no. Foto e dichiarazioni della produzione Disney erano evidentemente allucinazioni di vecchi barbogi troppo attaccati a valori noiosi e arretrati, desiderosi di fermare le magnifiche sorti e progressive dell'incombente arcobaleno.
Sciocchezze, naturalmente. Il progetto era quello svelato dal Daily Mail e ammesso da varie fonti legate alla Disney. In questo senso, la marcia indietro è inquadrabile in tre scenari possibili.
Il primo e più svilente è che fin dall'inizio la casa di produzione intendesse realizzare un remake tradizionale, ma abbia utilizzato l'arma della polemica che le pulsioni woke portano sempre con sé per avere un po' di pubblicità gratis. Cinico ma assolutamente possibile essendo Hollywood, a detta anzitutto di chi ci lavora, il prototipo occidentale dell'immoralità più spinta.
Una seconda ipotesi è che la Disney non regga più di fronte ai continui tonfi al botteghino e al calo verticale del suo titolo in borsa (-15,75% negli ultimi sei mesi). Per quanto i commissari politici woke si siano infiltrati nell'industria cinematografica e dell'intrattenimento, alla fine per un'azienda privata sono i numeri a contare e quando questi si schiantano clamorosamente contro il noto muro del "go woke, go broke" e il pianto degli azionisti comincia a essere insistente e fastidioso, allora forse un risveglio vero avviene.
PROTESTE PLANETARIE
Terza e più probabile ipotesi, il clamore e le proteste planetarie contro l'ennesima azione orientata a violentare un'opera del passato, per di più destinata ai bambini, devono aver trasmesso alla Disney la proporzione con cui la misura risulta ormai colma. Anche la pazienza più collaudata ha un termine ed è facile raggiungerlo quando una, di per sé anche lodevole, attenzione particolare verso minoranze che rischiano l'esclusione prende le fattezze dell'ossessione e i caratteri dell'indottrinamento. In questi casi la saturazione è dietro l'angolo e il mondo, evidentemente ancora popolato maggioritariamente da persone di buon senso, deve essere riuscito a urlare direttamente nell'orecchio della Disney il proprio senso di rigetto e la totale mancanza di opportunità nel portare a termine operazioni di revisione così forzate e ambigue.
Quale che sia la ragione del ripensamento della Disney, tuttavia, rimane un fatto incontrovertibile: per natura, le persone desiderano usualmente veder rappresentata la realtà per quella che è. Non escludono l'eccentricità, ovviamente, anzi essa è portatrice di effetti speciali se dosata sulla stessa misura con cui i fenomeni appaiono nelle comunità. I gruppi di cui la cultura woke si fa portavoce rappresentano statisticamente qualcosa di simile al pulviscolo, all'interno delle varie società, e di ciò andrebbe tenuto conto nel momento in cui si propone un prodotto, quale che sia, alla collettività. Il che è ancora più vero se si tratta di creazioni destinate ai bambini, per i quali i genitori vogliono stimoli alla risata, allo stupore, al divertimento, alla fantasia e, se possibile, un contributo all'educazione ai valori condivisi e maggioritari dell'umanità, affinché li acquisiscano per poi decidere liberamente, all'età giusta, se metterli in discussione oppure no.
Nell'illusione di poter rappresentare la realtà contemporanea, Disney ha abdicato da tempo a questo ruolo e, al di là dell'eccezionale ripensamento su Biancaneve, pare intenda proseguire con decisione nella strada che l'agenda mondiale del politicamente corretto le ha imposto. Faccia pure. Più cocciutamente persiste, più grande sarà l'ondata di riprovazione che la travolgerà, costringendola a correzioni in corsa. Di flop in flop, alla fine capirà, se non fallisce prima, che la realtà contemporanea è ben altro dai diktat di gruppi d'interesse e lobby ideologiche che nulla hanno a che fare con la domanda proveniente dai consumatori e ancor meno con una natura umana che sì, è paziente e indulgente, ma che, raggiunto il punto di saturazione, non lascia scampo. Ancor più se in ballo ci sono i suoi figli.
22 AGO. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7512
BARBIE, UN FILM FEMMINISTA MA CHE DIMOSTRA ANCHE IL FALLIMENTO DEL FEMMINISMO di Federica Di Vito
Molti sono andati al cinema a vedersi Barbie. Superati i 21 milioni di euro di incasso in Italia e più di 775 milioni di dollari a livello globale, sembra essere il miglior incasso italiano del 2023, secondo per ora solo ad Avatar (Fonte Cinetel). E se qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un semplice film è perché non ne ha colto la portata, a detta dei media mainstream. Se poi a capire che la fashion doll più famosa abbia segnato un'epoca possiamo arrivarci più o meno tutti, risulta invece difficile comprendere come una bionda perfettamente in linea con i canoni di bellezza che le nuove femministe vorrebbero vedere annientati possa elevarsi a paladina del pink power. Di pink in effetti ce n'è parecchio, ma qual è questo "power" che affascina le ragazze?
La visione di Barbie sembra un'esperienza che lascia il segno, ci sarebbe un "prima" e un "dopo" a tal punto da spingere tante coppie a lasciarsi. Sarebbe nato così un vero e proprio fenomeno, l'hanno chiamato Barbie break up. «Grazie, Barbie, per avermi dato potere», scrive una ragazza su Twitter, «per avermi dato la fiducia necessaria, per avermi fatto capire che merito di meglio». E poi ancora, Theresa Arzate, ventisettenne di Dallas, ha raccontato su Twitter che sarebbe stata la reazione del suo ex fidanzato dopo la visione del film ad averla spinta a rompere con lui. I ragazzi mollati sembrano essere colpevoli di non empatizzare per esempio con la critica cinematografica Zoë Rose Bryant che si rilegge il monologo di Barbie «tutte le sere come se fosse la mia Bibbia». Intanto su TikTok qualcuno suggerisce di mettere alla prova il partner dopo i primi appuntamenti proprio con la visione del film. Il prototipo di "ragazzo perfetto" dovrebbe sentirsi a suo agio vestito di rosa a ridere degli stereotipi senza sminuire le sensazioni di disagio che la donna prova nella società odierna. E poi ci sono tutti gli altri, quelli che una ricerca del King's College di Londra ha rivelato avere affermato che il femminismo faccia più male che bene, e cioè un terzo degli intervistati. Se il ragazzo in questione non fa mea culpa sugli errori di Ken, allora meglio sbarazzarsene.
Eccolo il potere che Barbie sembra conferire alle ragazze. Di scoprire se stesse, i propri bisogni e ciò che si meritano. Finalmente. «Greta Gerwig sta cercando di salvarci tutte, attraverso Barbie!», sostiene la Tiktoker Megan Gotham, e anche l'Huffpost riporta il pensiero di un'utente dell'app dating Hinge: «Penso che se un ragazzo ha una forte reazione negativa solo all'idea di vedere il film allora questa è un segnale d'allarme». Analizzare il fenomeno non è complicato, basti guardare quanta fiducia venga affidata oggi ai social. È frustrante però pensare alle tante ragazze che affidano a un singolo film la capacità di discernere se la persona che si frequenta sia quella giusta o meno. E che solo lasciando il proprio ragazzo pensano di combattere l'ingiustizia sociale che sentono. Tanto più se poi allo stesso tempo si guarda il mezzo milione di giovani della Gmg che tremanti e felici hanno affidato la loro vocazione all'unica Fonte che può saziare qualsiasi fame di fiducia, potere, affermazione, empowerment o dir si voglia. In fin dei conti, di amore.
Allora Barbie potrà anche illuderti che «puoi essere tutto ciò che desideri», ma il segnale vero che l'uomo che hai accanto è il meglio per te - si tappino le orecchie le femministe - lo vedrai quando ti dirà la verità. Ovvero che no, non puoi essere tutto. Puoi scegliere in virtù del tuo essere donna e saranno quelle scelte definitive a dare ordine a tutti i tuoi desideri. Sarà la risposta a una vocazione a darti la possibilità di brillare, unica e irripetibile, come Dio ti ha pensata. Altrimenti puoi accontentarti dei tanti Ken prodotti in serie e del pink power che dura quanto una passata di lipgloss.
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Barbie, il fallimento dell'ideologia femminista" sostiene che Barbie non è un film femminista, ma una divertente disamina del femminismo passato e presente. E sul suo fallimento. Lo rilanciamo per avere una panoramica completa delle reazioni al film (suggeriamo inoltre la rilettura di un nostro precedente articolo sul film, clicca qui!).
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 19 agosto 2023:
Passata la bufera mediatica e la mania promozionale del "tutti in rosa", anche la Nuova Bussola Quotidiana si è avvicinata, con estrema cautela e riluttanza, al successo dell'estate: Barbie. Le premesse non fanno ben sperare. Sarà il solito polpettone femminista e woke? La regista, d'altra parte, è Greta Gerwig, la stessa che sta dirigendo un remake di Biancaneve senza nani e soprattutto senza principe. Invece Barbie è, almeno nel finale, una piacevole sorpresa, una pellicola divertente, autoironica, con due grandi interpreti (Margot Robbie e Ryan Gosling, rispettivamente Barbie e Ken) che danno profondità e umanità a personaggi di plastica.
Il film inizia come un qualunque pamphlet femminista. In una riedizione fedele delle scene iniziali di 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick, le bambine del passato incontrano il loro monolite, una gigantesca Barbie e spaccano le loro bambole sulle pietre, un gesto di ribellione violenta contro il loro ruolo di madri. La Barbie rappresenta, così, l'utopia femminista. Vive in una terra di sogno, Barbieland, dove le bambole-donne possono diventare quel che vogliono, si premiano, si elogiano, lavorano nei cantieri e vanno nello spazio, sono felici e benvolute anche se sovrappeso, ballano anche se sulla sedia a rotelle, sono da Nobel e hanno una presidente nera. Ma se una resta incinta viene ritirata dal mercato, nascosta. I maschi ci sono, i Ken, ma sono solo accessori. Il Ken esiste nell'attesa di uno sguardo, di un'attenzione della Barbie, altrimenti non è. Sogno o incubo? La Barbie-stereotipo (la prima, bionda, che conosciamo tutti) a un certo punto inizia a pensare alla morte. È un problema. Per risolverlo deve entrare nel mondo reale, per mettersi in contatto con la sua bambina proprietaria e capire cosa la turbi. La segue Ken.
Nel mondo reale, Barbie rischia di finire come Pinocchio. Scoprirà che i maschi sono ancora al comando, persino nella Mattel che l'ha creata. Ken, al contrario, inizia ad esaltarsi, se non altro perché viene rispettato come persona e non solo come accessorio. Barbie incontra la "sua" bambina che non è più cresciuta nell'epoca del femminismo utopistico, ma di quello moderno, fatto di odio e lotta di genere. Ed è un cozzo frontale, la bambola viene insultata e cacciata perché "fascista". I signori della Mattel, intanto, le danno la caccia perché nessuna Barbie viva deve entrare nel mondo reale. La povera bella bambola si salva solo perché incontra la vera proprietaria: la mamma della bambina, una donna matura che incarna il femminismo fallito e disilluso. Sogna ancora un mondo dove le donne comandano e decide di seguire la "sua" bambola a Barbieland. Nel frattempo, però, Ken ha preso il potere e l'ha trasformata nel patriarcato Kendom, tutto cavalli, muscoli, cappelli da cowboy e birra, la caricatura del machismo del West.
In un crescendo di delirio pop e di umorismo surreale, come era prevedibile le Barbie riprendono il potere, anche con la benedizione della Mattel (che non vuole un prodotto per maschi: al suo vertice sono maschi "femministi" per marketing). E se il film finisse qui, potrebbe essere archiviato come divertente ma inutile. Invece no, perché il finale gli dà un colpo di reni che fa salire di livello. In un commovente dialogo fra Barbie e la sua creatrice, il fantasma di Ruth Handler, la bambola decide infine di diventare umana, accettando la realtà: prima o poi invecchierà e morirà. Diventa comunque umana perché vuole cessare di essere un'idea per diventare parte della creazione e creatrice a sua volta. E la regista la mostra, in versione umana, dalla ginecologa: si presenta con un cognome e un nome e aspetta un figlio. La rottura iniziale della donna con il ruolo di madre è infine sanata in un atto di maturità. E l'uomo? Ken matura nel momento in cui si accetta come persona e non solo come accessorio di una Barbie. La Gerwig ci ha così offerto, forse senza volerlo, una via d'uscita intelligente dal tunnel della lotta di genere.
La pellicola è stata vietata in gran parte del mondo musulmano, perché, ad esempio, "va contro i valori della fede e della morale" (Libano), "promuove omosessualità e transessualità" (Algeria), diffonde "idee e convinzioni che sono estranee alla società e all'ordine pubblico kuwaitiani" (Kuwait). Accuse abbastanza strane, a dire il vero, considerando che nel film non compaiono neppure personaggi omosessuali, non ci sono scene di nudo e neppure di sesso. Si tratta di una produzione quasi pudica, rispetto agli standard attuali. Nel mondo islamico, tuttavia, è mal digerito un film diretto da una regista americana, su una bambola creata da un'imprenditrice ebrea e di
8 AGO. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7501
SANTA CHIARA SFIGURATA E OLTRAGGIATA di Cristina Siccardi
Lo stravolgimento della realtà dei fatti è diventato lo sport più praticato dei nostri tempi, anche nell'ambito religioso. «Non dire falsa testimonianza» recita l'ottavo comandamento, tuttavia menzogne ed inganni oggi si riconcorrono anche quando si tratta di narrare e divulgare frammenti della Storia della Chiesa, dunque fatti acclarati, ma che puntualmente vengono inzaccherati da menti che non amano la verità, bensì le interpretazioni che il mondo e i poteri forti, con le loro ideologie, propagandano.
Alcuni giorni fa avevamo parlato su queste colonne del film anticristiano Rapito del regista Marco Bellocchio (clicca qui!), ed ora non possiamo neppure tacere lo scempio che è stato commesso ai danni della figura di santa Chiara d'Assisi, oggetto dell'interesse della regista Susanna Nicchiarelli. Il suo sacrilego film è stato presentato in anteprima mondiale il 9 settembre 2022 alla 79ª Mostra del cinema di Venezia, prima di debuttare nelle sale cinematografiche italiane il 7 dicembre dello stesso anno. Ça va sans dire che la critica laica l'abbia osannato per aver sfigurato l'immagine dell'autentica santa Chiara, trasformandola in una femminista, ma ciò ha fatto anche Famiglia Cristiana, che si è laicamente compiaciuta attraverso le parole di monsignor Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello spettacolo, il quale ha dichiarato: «Chiara restituisce alla vicenda della Santa la possibilità di interpretare le vicende di ogni tempo grazie allo sguardo radicale della regista che vuole scardinare la rappresentazione più canonica per offrire un ritratto ribelle e vivo, complesso e stratificato. Un'opera irregolare nello spirito benché compatta nella forma, laica per vocazione, ribelle come dev'essere ogni racconto giovanile di rottura», per farlo, allora, bastava prendere la biografia di una qualsiasi rivoluzionaria e femminista, non certo la Sposa di Cristo Chiara d'Assisi. Invece no, devono contaminare i protagonisti del Cristianesimo con le idee anticristiane e togliere la santità, tanto nemica sia dei mondani che dei protestanti.
Non basta, il 14 novembre 2022 alla Filmoteca Vaticana si è svolta la cerimonia di assegnazione del Premio Fuoricampo per il film Chiara, in quanto da esso emerge «l'umanità e l'indipendenza di Chiara», come ha scritto Vatican News.
FEMMINISTA ED EMANCIPATA
Chiara, interpretata da Margherita Mazzucco, è ribelle alla famiglia non per seguire la volontà di Dio, incamminandosi sull'esempio di san Francesco, bensì per emanciparsi dallo strapotere dei maschi, permettendo alle donne di entrare «nel mondo iper-maschilista della Chiesa», come afferma Wikipedia.
Ebbene, santa Chiara è stata una donna di Dio, senza nessuna velleità femminista, visto che tale ideologia è sorta nel tempo della Rivoluzione francese per poi crescere con il liberalismo e trovare nella rivoluzione culturale del ‘68 il suo culmine, infiltrandosi massivamente nelle maglie della civiltà occidentale anticristiana. Ella era determinata a difendere ciò che san Francesco aveva realizzato con la Regola dell'Ordo Fratrum Minorum, fondando a sua volta quello che diventerà l'Ordo Sanctæ Claræ nel 1212. La regola di vita dell'Ordine fu inizialmente costituita da alcune semplici istruzioni dettate da san Francesco, ma queste osservanze nel 1215, in base a quanto stabilito dal XIII canone del Concilio Lateranense IV, dovettero cedere il posto alla Regola benedettina. Santa Chiara si batté non per rivalsa contro gli uomini - una sciocchezza così assurda da potersi considerare ridicola -, ma per tutelare con tutte le sue forze i principi francescani della povertà assoluta (Madonna Povertà) che venivano posti in pericolo a causa delle direttive ecclesiastiche provenienti dallo stesso Concilio Laterananse. Da qui i contrasti di santa Chiara, vera discepola di san Francesco, con le autorità religiose, finanche con il Pontefice. Ella non si piegò mai a linee guida errate e infedeli alle promesse originarie.
Per san Francesco, al fine di far accogliere alla Santa Sede la Regola dei Frati minori, era necessario non prendere in considerazione, temporaneamente, il ramo femminile, perché, a differenza del coevo san Domenico, che aveva adottato per i suoi Predicatori la Regola già esistente di sant'Agostino, egli ne voleva una riconducibile solo ed esclusivamente al suo Ordine. Per questo santa Chiara dovette pazientare, attendendo tempi migliori.
Lei e le sue consorelle vennero chiamate Povere Dame di San Damiano, alle quali il Cardinale Ugolino inviò, nel 1218, un visitatore cistercense, per le quali redasse, un anno dopo, una Regola che le riuniva alla famiglia benedettina, imponendo loro clausura e proprietà. Da allora iniziò un gioco sottile fra Chiara e il Cardinale, protettore delle Damianite dal 1218 in poi, anche quando diventerà Pontefice nel 1227 con il nome di Gregorio IX. L'obiettivo di Ugolino era quello di servirsi del movimento francescano femminile per riformare l'intero mondo monacale in un periodo in cui il livello delle osservanze e della religiosità lasciavano molto a desiderare in parecchi monasteri; in più il IV Concilio Laterano aveva da poco proibito la fondazione di nuovi ordini religiosi.
IL PRIVILEGIO DELLA POVERTÀ
Ma santa Chiara non ebbe alcuna intenzione di porsi alla guida dell'Ordine che Ugolino cercava di costituire. Per un po' di tempo il Cardinale trattò con riguardo Madre Chiara, arrivando a rinnovare nel 1228 il privilegio della povertà per il monastero di San Damiano. Però, dopo il 1230, adottò una linea più dura e intransigente, vietando ai Frati minori di visitare i monasteri di santa Chiara e assimilando sempre di più il funzionamento di essi a quello delle numerose istituzioni monastiche preesistenti.
Se ella aveva consigliato san Francesco, quando egli esitava fra vita eremitica e apostolato, per la scelta di quest'ultima, lui, prima di morire, le raccomandò di rifiutare ogni concessione su ciò che era essenziale. Così scrive nella sua volontà indirizzata a Santa Chiara: «Poiché, per divina ispirazione, vi siete fatte figlie e ancelle dell'altissimo sommo Re, il Padre celeste, e vi siete sposate allo Spirito Santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo, voglio e prometto, da parte mia e dei miei frati, di avere sempre di voi, come di loro, cura e sollecitudine speciale. Io, frate Francesco piccolino, voglio seguire la vita e la povertà dell'altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre e perseverare in essa sino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi attentamente dall'allontanarvi mai da essa in nessuna maniera per insegnamento o consiglio di alcuno» (Fonti Francescane, §§ 139-140). L'ideale di vita sia per san Francesco che per santa Chiara fu esclusivamente incentrato sul rigore evangelico nella povertà, nell'umiltà, nella penitenza.
Nella prospettiva di unione e assimilazione allo Sposo divino, la mistica Chiara visse la rinuncia come via prediletta per accogliere in lei Cristo. Negli scritti che sono pervenuti fino a noi, lei stessa evidenzia con insistenza il suo attaccamento per la povertà e per l'umiltà, testimoni delle sue nozze mistiche.
Principale sopravvissuta della primitiva epopea francescana, Chiara divenne un punto di riferimento nel momento in cui l'Ordine dei Frati minori, incoraggiato dal Papa, evolveva rapidamente verso forme nuove, iniziando a conoscere al suo interno delle tensioni fra coloro che volevano mantenersi fedeli alla Regola di san Francesco e i loro avversari, che reclamavano novità, accomodamenti e minor rigore, tradendo lo stesso fondatore che aveva categoricamente ordinato, nel suo celebre e straordinario Testamento, di non interpretare in alcun modo la Regola a proprio uso e consumo.
LA REGOLA DELLE CLARISSE
Ecco che, anche quando morì san Francesco, santa Chiara proseguì nel combattimento, come aveva fatto la sua guida spirituale, per mantenere viva la fiamma dell'ideale originario. Nel 1245 Innocenzo IV impose la defraudata Regola di Ugolino del 1218, chiamandola tuttavia Regola di san Francesco e non Regola di san Benedetto. Ma Chiara non poteva ritenersi soddisfatta da questo mutamento di nome, poiché il testo autorizzava le monache a possedere delle proprietà e dei redditi, cosa contraria alle sue ferme e salde convinzioni.
Per cercare di uscire da ciò che giudicava un'ingiustizia, Chiara decise con determinazione di intraprendere, verso il 1247, la redazione della Regola delle clarisse, ispirandosi a quella del ramo maschile ed alle osservanze di San Damiano, prevedendo esplicitamente la rinuncia ad ogni proprietà. Approvata dal nuovo protettore dell'Ordine, il Cardinale Rainaldo, ebbe anche il consenso, il 9 agosto 1253, di Papa Innocenzo IV, due giorni prima la morte della Santa di Assisi.
La prova del trionfo della tenacia di santa Chiara, che
3 AGO. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7499
BARBIE, UN FILM ZUCCHEROSO E FEMMINISTA di Raffaella Frullone
Possiamo ufficialmente dire che sia scoppiata la Barbie mania. In Italia il film che celebra la fashion doll più famosa del mondo ha incassato la bellezza di 7.7 milioni di euro in quattro giorni, guadagnandosi il record di miglior esordio dell'anno. Le sale sono letteralmente sold out e il fatto che a Milano, un lunedì sera di fine luglio, gli unici due posti disponibili fossero una terza fila alla proiezione delle 19.40 in lingua originale, la dice tutta. Soprattutto se si considera che gli italiani al cinema ormai, non vanno più da un pezzo.
Eppure legioni di fanciulle più o meno giovani sono accorse da ogni dove, richiamate da quel rosa shocking che è un po' come la madleine di proustiana memoria, in un attimo ti riporta agli anni spensierati dell'infanzia quando si poteva giocare a Barbie certi che non arrivasse Laura Boldrini a controllare il grado di empowerment. L'euforia passa subito perché la prima scena è un cupo remake di Odissea nello Spazio di Kubrick con delle bambine al posto delle scimmie, e dei bambolotti al posto delle ossa.
La voce fuori campo ci ricorda che in un oscuro passato, prima del femminismo faro di civiltà, le bambole esistevano solo per abituare le bambine all'unico ruolo che spettava loro nella società, quello di mamme, questo fino a quando, al posto del monolite, irrompe lei, una gigantesca Margot Robbie, Barbie appunto, in costume intero, tacco 12 e occhiale da sole. É a quel punto che, sulle note di Così parlò Zarathustra di Strauss, le bambine distruggono i loro bambolotti sbattendo violentemente i piccoli crani plastificati a terra mentre la voce narrante prosegue «Grazie a Barbie tutti i problemi del femminismo sono stati risolti».
I MASCHI SONO SOSTANZIALMENTE INUTILI
Poi si cambia scena, in un attimo siamo a Barbieland, la terra di Barbie. Un universo parallelo totalmente al femminile, con una presidente donna, un medico donna, una squadra di addette alla raccolta differenziata tutta al femminile, così come quella di operaie, in tuta rigorosamente rosa confetto. Barbie può essere tutto, insegnante, astronauta, infermiera, cantante, attrice, commessa, avvocato, psicologo, e ovviamente, come politicamente corretto insegna, oggi può anche essere di diverse etnie, taglie e anche in carrozzina. Ci sono tutte le opzioni possibili, tranne la mamma (l'unica "Barbie incinta" di Barbieland verrà prontamente mandata fuori produzione).
«Tu puoi essere qualunque cosa bambina - dice sempre la voce - mentre lui è solo Ken». A Barbieland infatti i Ken sono sostanzialmente inutili, letteralmente spiaggiati a pochi passi da un oceano di plastica, esistono solo in relazione alle Barbie e anche in quel caso devono accontentarsi di un angolino. Senza spoilerare troppo ad un certo punto, Barbie è costretta - per uno strambo mix che mette insieme piedi piatti, cellulite, ansia e pensieri di morte - a lasciare la sua terra tutta glitter e tacchi a spillo per andare nel mondo reale, per quanto si possa considerare reale Los Angeles. Qui la bambola con lo stacco di coscia più invidiato di sempre scopre amaramente che il mondo reale non è quello che lei aveva sempre immaginato, accipicchia, perché ancora il femminismo non ha avuto la meglio e i maschi hanno ancora in mano le redini del mondo e scopre anche che i suoi canoni estetici perfetti non hanno fatto che acuire il senso di frustrazione delle donne.
PER QUALE SCOPO SONO AL MONDO?
La pellicola è il racconto andata e ritorno di questo viaggio rocambolesco dove si alternano sentimentalismo e pistolotti sull'autodeterminazione, sull'emancipazione, sulla lotta al patriarcato. D'altra parte la regista Greta Grewig è la stessa che ha lavorato per Disney nel remake di Biancaneve, in cui in nani sono sostituiti dalle più inclusive "creature magiche", Biancaneve si salva da sola e il principe non c'è. Non va certo meglio in Barbie dove tutte le figure maschili sono ridotte a invertebrati zerbini incapaci di qualunque cosa, in primis ovviamente il povero Ken che elemosina attenzioni vere in un mondo plastificato dove non c'è nemmeno il sesso, Barbie infatti, come ripeterà più volte, non ha la vagina. E' a questo punto della pellicola che potrebbe affacciarsi lui, l'abbiocco.
Ma nel caso lo si superasse, in zona Cesarini il film potrebbe anche salvarsi, se non riscattarsi con una virata inaspettata verso la realtà, che fa capolino. Barbie come Pinocchio deve decidere se continuare a vivere a Barbieland o diventare una donna vera, qui si svolge un dialogo tra creatura e creatore, o meglio creatrice, ossia colei che ha inventato il giocattolo più famoso di Mattel, Ruth Handler, che rivela alla bambola di plastica che se sceglierà di diventare una donna vera dovrà fare i conti con cose difficili, tra cui la morte. Le due si prendono per mano e parte il brano What I was made for? (Per quale scopo sono al mondo?) e scorrono le immagini soffuse di una mamma che allatta, di momenti familiari, abbracci, scorci di vita quotidiana. Barbie abbandona le decolleté per una (inguardabile) Birkenstock Arizona rosa e si prepara per un incontro importante. Varca la soglia di un palazzo, respira ed è al suo primo appuntamento... con la ginecologa, ora d'altra parte, è dotata di tutto il corredo riproduttore.
La prima cosa che fa da donna è prendere atto che potrà generare. E dunque diventare madre.
Benvenuta sulla terra.
27 JUN. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=1749
ESISTONO GLI ALIENI? LE UNICHE PROVE SONO I FILM DI FANTASCIENZA: WORLD INVASION (2011), INDEPENDENCE DAY (1996), 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) di Claudio Siniscalchi
Esistono gli alieni? Diamine se esistono, anche se nessuno è mai riuscito a mostrarne uno. E la prova più lampante ed incontrovertibile della loro esistenza l'ha storicamente fornita il cinema di fantascienza americano. L'ultima puntata di questa saga commercialmente fortunata e praticamente inesauribile è World Invasion di Jonathan Liebesman. Storia da manuale. Arrivano gli alieni cattivi, davvero cattivi. Qualcuno dovrà pure fronteggiarli. Ad incaricarsi dell'ultima disperata difesa è il moderno «settimo cavalleggeri», cioè il corpo dei «marines» degli Stati Uniti.
Compito un tantino difficile, visto che la posta in gioco è la salvezza del pianeta. I nemici sono piovuti dal cielo come meteoriti e la battaglia sulla carta appare segnata. Con i «marines» in campo, però, mai dire mai. Finalmente gli alieni sono approdati sulla città degli angeli. Un'avvisaglia del loro imminente arrivo gli abitanti di Los Angeles la ebbero pochi mesi dopo l'attacco giapponese alla flotta statunitense di stanza a Pearl Harbor. Non si trattava di una burla di Orson Welles, tipo la finta radiocronaca dello sbarco dei marziani. Un'incursione dell'aviazione giapponese era data per certa, e si prevedeva avvenisse di notte. L'allarme partì. L'incubo dei cittadini fu pari alla prontezza dell'artiglieria antiaerea nello sparare cannonate all'indirizzo del cielo. Nessun nemico però volteggiava nell'alto.
Cosa era successo? Errore umano, precipitazione dettata dalla paura, o mistero? I giornali si scatenarono. Le vicende belliche tennero a freno la passioni per l'universo extraterrestre. Si scatenarono, inarrestabili, di lì a poco, dopo lo schianto di un disco volante (con tanto di passeggeri alieni) nei pressi di Roswell, New Mexico, nel luglio del 1947. Nella notte di Los Angeles la mobilitazione venne decretata per fronteggiare un'invasione extraterrestre. L'allarme fasullo, sostennero a guerra finita le autorità militari e governative, fu determinato da alcuni palloni meteorologici. Spiegazione alla quale gli ufologi non hanno mai prestato la minima fiducia.
Gli unici danni dell'invisibile (e inesistente) invasione giapponese (o aliena) furono causati dal «fuoco amico». Le vittime (tre) caddero non per attacco aereo (o da disco volante), ma per attacco cardiaco. La causa: choc emotivo da cannonate. L'apparizione degli alieni continua a tenere banco senza sosta. È di pochi giorni fa la rivelazione (l'ennesima) di documenti dell'FBI che accerterebbero l'esistenza di corpi extraterrestri e navicelle spaziali custoditi in gran segreto dalle autorità statunitensi. L'esistenza, come si ricorderà, veniva comunicata all'ignaro presidente americano (un giovane e atletico pilota da guerra) in Independence Day (1996) di Roland Emmerich, fra i successi più clamorosi al botteghino degli ultimi venti anni. E immediatamente, dovendo fronteggiare un attacco extraterrestre, chiedeva di recarsi nel deserto per prendere diretta visione dei mostruosi nemici. Insomma, il mito degli alieni non smette di affascinare e convincere.
Anche Stephen Hawking, dall'alto della cattedra a Cambridge ereditata addirittura da Isacco Newton, prima giurò, secondo scienza, che non esistevano. Poi ci ha ripensato: sempre secondo scienza ne ha sentenziato l'esistenza. Infine ha detto parole molto sensate: lasciamoli stare, non li stuzzichiamo. Se ci scoprono e sono come noi, potrebbe finire male. La questione attirò anche le riflessioni di Enrico Fermi. Il «papa» seduto a tavola affermò sicuro: abbiamo miliardi di mondi esistenti nella galassia, quindi non possiamo essere la sola forma di vita intelligente. Poi si rabbuiò, proseguendo perplesso: ma se siamo certi della loro esistenza, e il calcolo matematico conferma tale ipotesi, perché non si fanno vedere?
All'affascinante mistero delle realtà aliene è dedicato un interessante e chiarissimo saggio, Extraterresti. La radici occulte di un mito moderno, scritto da Enzo Pennetta e Gianluca Marletta (Rubbettino, p. 135, € 11,00). I due studiosi ricostruiscono con metodo esatta la costruzione del mito degli alieni. Un mito - uno dei tanti - anticristiano, mescolanza di scientismo materialista (figlio della cultura illuminista) e occultismo neospiritualista (affiorato con estrema forza tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento). Questo frullato di richiami scientifici e istanze neognostiche (teosofia, spiritismo, magia, satanismo, occultismo, poteri medianici) per un lungo tratto di tempo è rimasto appannaggio di un'élite di iniziati, spesso appartati. Poi, nel dopoguerra, con la diffusione pressoché planetaria della società dei consumi e dell'industria culturale, il mito degli extraterrestri si è trasformato in fenomeno di massa.
Negli anni Sessanta del Novecento, spinta sulle ali della controcultura americana, la cultura New Age, nel segno dell'età dell'Acquario, ha introdotto il concetto di «cambiamento di paradigma»: si stava cioè passando dall'età dominata del cristianesimo a quella di una nuova spiritualità della divinizzazione dell'uomo. Manifesto visivo della nuova era si rivelò 2001: Odissea nello spazio, capolavoro cinematografico diretto da Stanley Kubrick nel 1968. Di quest'opera complessa, ambigua e affascinante, per molto tempo ne è stata esaltata soprattutto la natura «razionalista», ottimisticamente «progressista» e benevolmente favorevole nei confronti della potenza liberatrice della scienza. Il film è stato addirittura interpretato come un'opera dedicata al mistero di Dio, pur se gli autentici intendimenti di Kubrick erano ben diversi. Il geniale e trasgressivo regista americano non voleva realizzare, nel pieno della stagione della controcultura, un film «razionalista». In realtà voleva fare il contrario: un film in opposizione alla «razionalità» dominante.
Nel film apprendiamo come la ragione è trasmessa all'uomo da un misterioso e indefinibile monolite. La logica della scoperta non è scientifica e razionale, ma avviene a causa di una illuminazione. La ragione, pertanto, deve considerarsi extraumana ed è fonte di progresso non certo pacifico, ma distruttivo. Il film di Kubrick è l'illustrazione visiva del definitivo esaurimento della civiltà occidentale, della frantumazione del percorso della modernità, alla quale è intimamente connessa la razionalizzazione. Siamo davanti ad un mondo fuori controllo e minacciato proprio da quella ragione che doveva dominarlo e farlo crescere armoniosamente.
In estrema sintesi sono gli alieni (una civiltà superiore), e non Dio, ad occuparsi degli umani. Nella vastissima letteratura critica dedicata all'opera di Kubrick, il problema della presenza di forme extraterrestri è ritenuta marginale. Invece è l'essenza del film, come ben chiariscono le pagine di Enzo Pennetta e Gianluca Marletta. Kubrick era convinto dell'esistenza di forme extraterrestri dotate di intelligenza superiore. Con 2001: Odissea nello spazio di fatto si anticipava una cultura relativista, antirazionalista ed antiscientifica, che sarebbe dilagata nei decenni successivi, servitasi del genere della fantascienza. Con il suo film Kubrick fece breccia nel cuore della generazione venuta alla ribalta sul finire degli anni Sessanta; generazione psichedelica, desiderosa di avvicinare nuovi percorsi spirituali.
Il film, in sostanza, poteva considerarsi un processo visivo all'Occidente. Furono i figli dell'Età dell'Acquario a determinare il successo di 2001: Odissea nello spazio. I figli di McLuhan trovarono nei silenzi, nella maestosità e nella lentezza dell'opera di Kubrick un richiamo irresistibile. Un giovane spettatore, durante una proiezione, corse verso lo schermo e provò ad attraversarlo urlando: «vedo Dio!».
Ma quale Dio stava vedendo quel giovane rapito dalla forza persuasiva dell'immaginario kubrickiano? Uno dei tanti «figli dei fiori», magari con l'aiuto di stupefacenti, non resisteva al fascio di luce bianca che sullo schermo stava proiettando qualcosa di talmente divino da somigliare a Dio. Non si trattava certo del Dio della tradizione giudeo-cristiana, ma piuttosto del Dio già in voga tra gli adepti della Jesus Revolution californiana, impegnati ad accostare Gesù Cristo a Buddha e a Zoroastro, amalgamando il culto delle antiche religioni orientali del sole e gli extraterrestri, gli angeli e il potere terapeutico dei cristalli, la libertà sessuale e Satana, la musica rock e lo spiritismo, l'uso delle droghe e il cinema di fantascienza.
Il finale di 2001: Odissea nello spazio annunciava la nascita di un «nuovo uomo», l'«oltre uomo», l'«ultimo uomo», il «superuomo» tenuto a battesimo dalla benevolenza aliena.
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