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La pungente penna di chi sa coniugare una profonda fede con l'insegnamento della Chiesa
5 NOV. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7971
DAI VESCOVI UN GIRO DI VITE SUGLI ABUSI LITURGICI di Luisella Scrosati
La Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito un energico giro di vite sugli abusi liturgici, emanando una circolare per tutti i sacerdoti, perché pongano fine ad atti che non rispettano la natura del culto pubblico della Chiesa. Il cardinale Zuppi ha firmato un documento che prevede sanzioni verso i sacerdoti protagonisti di liturgie fai-da-te. Non ci credete? Fate bene, perché per i vescovi italiani le priorità sono la Costituzione, il cambiamento climatico e il sostegno di Bruxelles. Non così però per i confratelli nigeriani, che invece hanno realmente preso carta e penna per comunicare ai loro sacerdoti che di abusi liturgici ne hanno abbastanza.
Con una dichiarazione del 15 agosto scorso, la Conferenza Episcopale Nigeriana (CBCN) ha fermamente condannato l'«aumento allarmante nella nostra nazione di aberrazioni durante il culto, commesse da alcuni nostri preti». Nel documento, che porta la firma del presidente della CBCN, mons. Lucius Iwejuru Ugorji, arcivescovo di Owerri, lamentano soprattutto «deviazioni dalle preghiere prescritte e dalle rubriche della Messa, inclusa la preghiera eucaristica» ed un «trattamento irriverente dell'Eucaristia», con particolare riferimento all'uso di camminare in mezzo alla navata con il Santissimo sacramento, benedicendo le persone agitando l'ostensorio a mo' di aspersorio.
Altri abusi vengono ripresi dai vescovi nigeriani: presenza di musica non liturgica o addirittura profana nella liturgia, danze indecenti, continua raccolta di offerte durante la celebrazione eucaristica, utilizzo della predicazione per finalità che non le sono proprie, invenzione di riti e benedizione di oggetti che la Chiesa non include tra i sacramentali e, più in generale, una mancanza di preparazione adeguata delle celebrazioni liturgiche.
ELENCO DI ABUSI
Si tratta di un elenco di abusi che evidentemente colpiscono le chiese cattoliche della Nigeria (in buona parte sovrapponibile a quanto accade da noi), ma che manifestano un atteggiamento di fondo, adeguatamente colto e stigmatizzato dai vescovi: «queste azioni non sono semplicemente errori di valutazione; sono violazioni dell'ordine sacro e come tali devono essere trattati. Ricordiamo ai nostri sacerdoti che l'altare non è un palcoscenico teatrale e che la liturgia neppure è un luogo di innovazione». Si trova qui il cuore di questa dichiarazione: la liturgia risponde a un ordine sacro che non è a disposizione dell'arbitrio degli uomini, nemmeno se preti o vescovi, qualunque sia la loro più o meno lodevole intenzione. Note di benedettiana memoria.
«La liturgia è un'anticipazione del banchetto celeste, un incontro sacro con la divinità, e dev'essere sempre condotta con la più grande solennità e il più grande rispetto. Qualsiasi atto che sminuisce questo incontro sacro dev'essere condannato e corretto con la serietà che merita», continua la dichiarazione. In un contesto di aperta e sanguinaria persecuzione dei cristiani, i vescovi nigeriani fanno quadrato per difendere il primato di Dio, nel culto liturgico a lui dovuto. Ai loro occhi evidentemente non è una minaccia meno grave quella che nasce dall'interno della Chiesa, dal cuore del santuario, dalle mani e dalle labbra dei sacerdoti, di quella che proviene dai gruppi di islamisti.
In un Paese dove, nel solo 2022, quasi 6mila cristiani sono stati uccisi, oltre 2mila chiese distrutte, 124mila persone sono state allontanate con forza dalle loro case, dove continuano l'assassinio e il rapimento di laici e chierici, i vescovi hanno la lucidità e lungimiranza di mettere in guardia i sacerdoti dal violare l'ordine sacro nella sua forma esterna. Visione pienamente illuminata dalla fede e animata dalla virtù di religione: quella di celebrare i santi misteri, continuano i vescovi, «non è una responsabilità da prendere alla leggera, né una responsabilità che permette un'interpretazione personale. Questo si può ottenere solo quando la liturgia viene celebrata con il decoro, la riverenza e la fedeltà che essa richiede. Gli abusi e le deviazioni relative alla forma prescritta non sono solamente inaccettabili, ma costituiscono un grave danno per i fedeli e per la Chiesa».
LA DIREZIONE DA PRENDERE
Chiesa e fedeli: sono quasi una rarità i sacerdoti consapevoli che non hanno alcun diritto di alterare, sminuire o modificare i sacri riti approvati dalla Chiesa: «la Chiesa ci ha dato delle direttive chiare sul modo in cui la liturgia dev'essere celebrata, e queste direttive devono essere seguite senza eccezioni. La fedeltà alle leggi della Chiesa non è facoltativa, ma obbligatoria. I fedeli non meritano altro che la celebrazione corretta e rispettosa dei misteri della nostra fede».
I fedeli, appunto, le vittime dei gusti personali dei preti e delle commissioni liturgiche: vittime quando il loro diritto di poter partecipare alla sacra liturgia, senza "additivi" e senza minimalismi essenzialisti, viene calpestato, con loro grande sofferenza; doppiamente vittime quando seguono entusiasti le creatività liturgiche dei loro pastori.
Come nelle visioni dell'Apocalisse, la purezza del copioso sangue dei martiri entra nella liturgia che unisce cielo e terra, liturgia descritta con minuziosità da San Giovanni nelle forme della sua sollemnitas, senza la quale essa non è, nella migliore delle ipotesi, che un semplice esercizio di devozione personale e nelle peggiori una vera e propria manipolazione di ciò che spetta a Dio solo.
La Nigeria è davanti ai nostri occhi per capire qual è la direzione da prendere, per uscire dalla grave crisi che attanaglia la Chiesa e rischia di farla estinguere: glorificare Dio con il sacrificio della vita; glorificare Dio con la solennità e il profondo rispetto dei sacri riti. E la Chiesa in Nigeria, pur con tutte le sue ombre e i suoi limiti umani, scoppia di battesimi e vocazioni. La nostra languisce, mentre è tutta indaffarata a perseguitare il rito antico.
2 OCT. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7940
IL PAPA E IL DOVERE DI ASSOLVERE di Luisella Scrosati
Era passata inosservata l'ennesima grave esternazione di papa Francesco in occasione del recente viaggio in Indonesia. Ma ci ha pensato il fido Antonio Spadaro a riesumarla e farla conoscere al mondo sul sito de La Civilità Cattolica, riportando diversi colloqui di Francesco in occasione del Viaggio Apostolico, incluso quello con 42 gesuiti di Timor Est, il 10 settembre.
Il Papa ha ripetuto ancora una volta di non aver mai rifiutato l'assoluzione, aggiungendo però un dettaglio che lo pone direttamente sotto l'anatema del Concilio di Trento. Già nel novembre 2022, parlando ai Rettori e ai Formatori dei Seminari dell'America latina, Francesco si era spinto molto alla deriva (vedi qui), etichettando come "delinquenti" quei sacerdoti che rifiutano l'assoluzione. Poi, il 14 gennaio scorso, ospite della trasmissione Che tempo che fa, aveva ostentato la sua misericordia, affermando che «in 54 anni di sacerdozio ho soltanto negato una sola volta l’assoluzione per l’ipocrisia della persona». Ora, con i confratelli di Timor Est, il Papa confessa «che in 53 anni di sacerdozio non ho mai rifiutato un’assoluzione». Non è solo il computo degli anni di sacerdozio a non tornare (dal prossimo 13 dicembre saranno infatti 55), ma anche il contenuto dei suoi racconti: questa benedetta assoluzione l'ha negata almeno una volta all'ipocrita o non l'ha mai negata? Quale sarà la prossima versione? La sensazione che Bergoglio se le inventi di sana pianta è piuttosto difficile da rintuzzare.
Ma questa volta il Papa ha pensato bene di aggiungere al suo già problematico palmarès una nuova "nota di demerito". Ha infatti affermato di aver sempre perdonato, anche quando la confessione «era incompleta» (corsivo nostro). E ha proseguito: «Ho sentito dire a un cardinale che, quando è in confessionale e le persone cominciano a dirgli i peccati più gravi balbettando per la vergogna, dice sempre: "Vada avanti, vada avanti, ho capito già", anche se non ha capito niente. Dio capisce tutto. Per favore, non trasformiamo il confessionale in un consultorio psichiatrico, non trasformiamolo in un tribunale. Se c’è una domanda da fare, e spero che siano poche, la si fa e poi si dà l’assoluzione».
LA CONFESSIONE INCOMPLETA
Come si può notare, il Papa ha esplicitamente fatto riferimento ad una confessione incompleta. L'aggettivo è indicativo di una precisa espressione teologica, che si riferisce ad una confessione nella quale il penitente volutamente tace uno o più peccati mortali da lui commessi e non precedentemente confessati. In simili situazioni, la confessione viene a mancare del requisito essenziale dell'integrità, ossia la confessione di tutti i peccati gravi (la confessione dei peccati veniali è consigliata, ma non obbligatoria) di cui si è consapevoli, dopo un attento esame di coscienza, alla luce dei santi Comandamenti.
Ora, l'integrità dell'accusa è condizione necessaria per ottenere la remissione dei peccati, ossia è condizione per la validità del sacramento, esattamente come il pentimento e il proposito di emendarsi. Vi sono situazioni in cui ovviamente il sacerdote non può sapere che il penitente stia tacendo dei peccati gravi, perché non ne ha elementi oggettivi. Altre in cui ne ha il sospetto e allora ha il dovere di porre delle domande per aiutare il penitente a confessare tutte le colpe gravi commesse; è il classico caso della persona che non si confessa da 30 anni e dice solo di aver mangiato una caramella in Quaresima... Vi sono poi altre situazioni in cui il sacerdote ha la certezza che la confessione non sia integra, come nel caso di un peccatore pubblico che taccia appunto la colpa nota. Le parole del Papa portano decisamente a questa terza ipotesi, dal momento che Francesco ha fatto riferimento ad una confessione effettivamente incompleta e non al sospetto insolubile che potesse essere tale.
In sostanza, il Papa si è posto come esempio per esortare i confratelli ad impartire assoluzioni invalide, finendo piuttosto chiaramente sotto l'anatema scagliato dal Concilio di Trento nel settimo dei Canoni sul sacramento della penitenza: «Se qualcuno dirà che nel sacramento della penitenza per ottenere la remissione dei peccati non è necessario di diritto divino confessare tutti e singoli i peccati mortali che si ricordano dopo debito e diligente esame, anche quelli segreti e commessi contro i due ultimi precetti del decalogo [...], sia anatema (Denz. 1707). Importante la sottolineatura «di diritto divino» (iure divino), che indica espressamente che l'integrità della confessione è condizione costitutiva del sacramento e non derogabile da parte di qualsivoglia autorità ecclesiastica, fosse appunto anche il Papa, che non è affatto superiore al diritto divino.
IL PENTIMENTO DI TUTTE LE COLPE
Nella sua parte espositiva, il medesimo Concilio spiegava la ragione profonda dell'importanza e necessità di non tacere alcuno dei peccati gravi di cui si è consapevoli: «Mentre i cristiani si sforzano di confessare tutti quelli che vengono loro in mente, senza dubbio mettono tutti i loro peccati davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote» (Denz. 1680).
Il sacramento della penitenza esiste per rimettere i peccati ed essere così riconciliati con Dio. Ora, conservare il legame con un peccato che, per sua natura, ci separa da Dio (ossia un peccato mortale), impedire volontariamente che venga alla luce per essere rimesso e la nostra anima sia così risanata, significa sottrarsi alla misericordia di Dio. Sarebbe semplicemente ridicolo pensare che il Signore rimetta "parzialmente" le colpe, ritenendo che intanto si possano assolvere le colpe confessate, ma non quelle occultate; ed ancor più assurdo sarebbe pensare che Dio rimetta quelle colpe che noi vogliamo sottrarre al suo perdono, tacendole. I peccati mortali sono sì di specie molteplici, ma tutti accomunati da una caratteristica: commettendoli, l'anima si distoglie da Dio e si priva della grazia santificante. Per questa ragione, il penitente deve ripudiarli tutti e singoli per non conservare quell'affetto al peccato, che lo manterrebbe nello stato di privazione della grazia. Perché - e questo è ciò che questo pontificato ha dimenticato e fatto dimenticare - tra il peccato mortale e la grazia santificante c'è esclusione reciproca: o c'è l'uno o c'è l'altra. Appunto perché non si tratta di "cose" che possono stare l'una accanto all'altra, ma di disposizioni dell'anima che o si volge a Dio con un vero pentimento di tutte le sue colpe oppure si distoglie da lui, conservando affetto per la colpa.
ASSOLVERE ANCHE SE NON SI PUÒ SIGNIFICA INGANNARE IL FEDELE
Papa Francesco è nuovamente cattivo maestro: assolvere un penitente, sapendo che la sua confessione non è integra, significa ingannare gravemente il fedele, simulando un'assoluzione che non può che essere invalida, e profanare così il sacramento. Lasciare che il fedele occulti le proprie colpe, significa lasciarlo nella melma della colpa ed impedire la sua guarigione. Si tratta dunque a tutti gli effetti di una falsa e pericolosa misericordia.
Non meno problematica è l'esempio riportato dal Papa, nel quale si evince che non sarebbe necessario che il penitente specifichi di quali peccati si sta accusando, né che il sacerdote lo comprenda. Il Concilio di Trento, al contrario, insegna che parte essenziale dell'integrità della confessione è lo specificare il tipo di peccato ed anche «le circostanze che mutano la specie del peccato, perché senza quelli né i penitenti esporrebbero integralmente i peccati, né i giudici li conoscerebbero a sufficienza per percepirne esattamente la gravità e imporre ai penitenti una pena proporzionata» (Denz. 1681)». Perché, quanto alla gravità, altro è rubare una matita al compagno di classe e altro rubare ad una famiglia il necessario per vivere; quanto alla specie, altro è rubare al supermercato e altro rubare la pisside con le ostie consacrate dal tabernacolo. Non basta, per esempio, accusarsi di aver peccato contro la purezza: senza entrare ovviamente in dettagli inutili e morbosi, si deve però confessare se il peccato contro il sesto comandamento è avvenuto da soli, o con altre persone; e se queste altre persone sono sposate o libere, se sono persone del proprio sesso o no, perché, come è facile comprendere, cambia la specie di peccato.
È da notare inoltre come il Concilio tridentino non tema di chiamare il confessore «giudice», e, come se non bastasse, di definire «empio affermare che una tale confessione», nella quale si confessano tutti i peccati gravi che si ricordano e le circostanze specificanti, sia «impossibile o chiamarla tortura delle coscienze». Esattamente quanto fa di continuo papa Francesco, mettendosi così nell'infelice compagnia di Lutero, Melantone e Calvino, che sono i bersagli espliciti di questo testo del tridentino.
30 JUL. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7847
IN OCCIDENTE VIVIAMO IN UNA DEMOCRAZIA TOTALITARIA di Luisella Scrosati
Fu lui il primo ad associare tra loro due termini apparentemente antitetici. Stiamo parlando dello storico polacco Jacob Leib Talmon (1916-1980), e dell’ormai classico saggio di filosofia politica "Le origini della democrazia totalitaria", edito per la prima volta nel 1952.
È possibile che la democrazia divenga totalitaria? È già accaduto nella storia e accade di nuovo. L’analisi di Talmon va alla Francia di fine Ottocento, e a quegli autori che prepararono concettualmente la Rivoluzione del 1789, come l’ex-allievo dei Gesuiti, Claude-Adrien Helvétius, il barone renano, Paul Henri d’Holbach, il ben più noto Jean-Jacques Rousseau, il misterioso Morelly, forse sacerdote, di cui non si saprebbe nulla se non avesse lasciato l’opera Code de la nature, e l’Abbé de Mably, dapprima gesuita e poi massone. Il libro analizza anche il pensiero di due attori fondamentali della Rivoluzione, ossia Emmanuel Joseph Sieyès, prete che abbracciò con entusiasmo la Costituzione civile del clero, e l’“Arcangelo del terrore”, Louis Antoine Léon de Saint-Just, per terminare poi con il rivoluzionario François-Noël Babeuf. Allora come oggi, con le stesse dinamiche, le stesse logiche.
Tre gli ingredienti essenziali della madre di tutte le democrazie totalitarie, e di tutte le figlie: damnatio memoriæ dell’ancien régime, ed in generale di tutto il passato dell’umanità, presentati come il regno dell’ignoranza, dei vizi e dei soprusi; instaurazione di nuovo sistema presentato come l’unico finalmente razionale e scientifico; prospettiva messianica, proiettata ad occuparsi di problemi remoti e universali, scansando quelli presenti e concreti, indegni dell’attenzione degli idéologues.
«Il pensiero democratico totalitario (...) può essere definito - spiegava Talmon - messianismo politico in quanto postula un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica». Si tratta di un piano di salvezza sociale, una vera e propria escatologia immanente, a cui gli uomini devono essere condotti, e che, appunto in quanto escatologia, trasforma la vita politica nell’unico piano totalizzante dell’esistenza: nulla al di fuori, nulla al di sopra.
NEL REGNO DELLA LIBERTÀ DEMOCRATICA C'È SEMPRE IL TERRORE
Va da sé che, in quanto messianismo, «gli assiomi o i postulati devono rimanere un fatto di fede. Essi non possono essere né verificati né confutati», ma semplicemente accettati; e chi pone domande o obiezioni diviene eretico. L’ideologo della rivoluzione ha la profonda convinzione «che il suo abbozzo a matita sia la sola cosa reale» e tutto il resto dev’essere ricondotto dentro questo abbozzo.
È qui che si comprende perché nel regno della libertà democratica subentri sistematicamente il terrore, pensato come male transitorio, ma inevitabile, per raggiungere quel bene determinato razionalisticamente e “scientificamente”. «Il dottrinario non pensa mai all’abbozzo a matita in termini di coercizione. Esso non è destinato a interferire con la libertà; al contrario, esso è destinato ad assicurarla. Soltanto il malintenzionato, l’egoista e il perverso possono lamentarsi che la loro libertà è violata. Essi sono colpevoli di sabotaggio, rifiutando di essere liberi e inducendo in errore gli altri». Il ricorso alla forza non è il fine, ma il mezzo necessario «per accelerare il passo del progresso umano verso la perfezione e l’armonia sociale», togliendo di mezzo quelli che, di volta in volta, vengono additati come i nemici del popolo, del progresso, della società, gli ostinati che impediscono alla società di divenire felice e sicura. Obiettivo che può essere raggiunto solo «al termine di questa guerra, solo quando il nemico è stato eliminato e il popolo rieducato».
DPCM ANTE-LITTERAM
Questo obiettivo è sempre solo un passo più in là della situazione concreta; «ripetutamente Robespierre e Saint-Just dichiararono che questo o quel decreto o epurazione era l’ultimo, proprio l’ultimo, e quello che avrebbe certamente inaugurato l’ordine naturale». DPCM ante-litteram. Ordine che diviene ancor più desiderato allorché si convince l’opinione pubblica che un grande male è all’orizzonte, come teorizzava Saint-Just nelle sue Istituzioni repubblicane (1794): «Dobbiamo aspettarci un male generale che dovrebbe essere abbastanza grande per dimostrare alla pubblica opinione la necessità di misure adatte a fare il bene». “Misure adatte” che divengono urgenti nei momenti di crisi, «in cui sono indispensabili l’unità di intento e l’azione concorde», che giustifica «l’eliminazione dell’opposizione ideologica e politica».
L’avanguardia illuminata si mostra dunque amica del popolo, perché ne conosce il bene autentico e persino le aspirazioni più profonde, così profonde da essere nascoste al popolo stesso. Essa è la vera interprete della “volontà generale”, che non è mai «la volontà degli individui spontaneamente espressa, ma qualcosa che avrebbe dovuto essere voluto e che, se necessario, (deve) essere imposto». È in virtù di questa volontà generale che l’avanguardia ha il diritto di ricorrere alla forza ed instaurare così una rivoluzione permanente, motivata ogni volta da mali che incombono e da un bene universale che è lì lì per essere raggiunto, se solo il popolo accettasse un ultimo sforzo, un’ultima restrizione, un ultimo sacrificio.
Non si deve però commettere l’errore di pensare che per la democrazia totalitaria le masse siano spettatrici: tutt’altro. Esse devono essere coinvolte, educate, così da «non lasciare al popolo la libertà di agire» come vuole, ma «fargli compiere l’azione giusta». Al popolo educando non è permesso dare una direttiva politica, almeno finché non è stato «preparato a votare come doveva».
L’analisi di Talmon non è solamente storica, ma profetica. Profezia non di un tempo che sarà, ma di un tempo che è.
2 JUL. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7844
RIFIUTANDO LA CHIESA VISIBILE VIGANO' SI SCOMUNICA DA SOLO di Luisella Scrosati
Com'era prevedibile, dopo la convocazione di Mons. Carlo Maria Viganò da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede, l'ex-Nunzio ha risposto con un pesante J'accuse, evocando il noto J'accuse le Concile che Mons. Marcel Lefebvre scrisse nel 1976.
Viganò ha esordito con un'affermazione che lo pone automaticamente al di fuori della Chiesa cattolica, a prescindere dalla sentenza che potrà venire dalla Santa Sede: «non riconosco l'autorità né del tribunale che pretende di giudicarmi, né del suo Prefetto, né di chi lo ha nominato». Il che significa la sua volontà di non essere in comunione con la Chiesa cattolica, nella sua attuale gerarchia. Che per quanto malmessa, per quanto comprensiva di persone obiettivamente non all'altezza e probabilmente anche indegne, rimane l'unica gerarchia esistente. E senza la gerarchia non si dà la Chiesa, almeno per come l'ha fondata Gesù Cristo.
Perché, senza nulla togliere all'importanza delle questioni legate al Concilio Vaticano II, alla riforma liturgica, ai problemi di questo pontificato, rimane la domanda fondamentale: dov'è la Chiesa? Se la Chiesa non è lì dove si trova quel Papa che i vescovi hanno riconosciuto all'unanimità, se la Chiesa non è lì dove ci sono questi vescovi in comunione con la Sede di Pietro, allora non esiste più la Chiesa cattolica. La quale è, per volere del suo fondatore, una società visibile, gerarchica e fondata sulla roccia di Pietro.
L'argomento fondante della propria posizione, Mons. Viganò lo avrebbe rinvenuto nella Bolla Cum ex apostolatus officio di papa Paolo IV, che fu pontefice dal 1555 al 1559. Questa Bolla, spiega Viganò, «stabilisce in perpetuo la nullità della nomina o dell'elezione di qualsiasi Prelato - ivi compreso il Papa - che fosse caduto in eresia prima della sua promozione a Cardinale o elevazione a Romano Pontefice. Essa definisce la promozione o l'elevazione nulla, irrita et inanis, ossia nulla, non valida e senza alcun valore (...). Paolo IV aggiunge che tutti gli atti compiuti da questa persona sono da considerarsi parimenti nulli e che i suoi sudditi, tanto chierici quanto laici, sono liberati dall'obbedienza nei suoi confronti». In virtù di questa giustificazione, Viganò «con serenità di coscienza» ritiene «che gli errori e le eresie a cui Bergoglio aderiva prima, durante e dopo la sua elezione e l'intenzione posta nella presunta accettazione del Papato rendono nulla la sua elevazione al Soglio».
Viganò si immette così nel grande fiume sedevacantista, abbracciandone sostanzialmente la posizione circa la nullità della nomina o la privazione dell'ufficio ipso facto di un prelato eretico, incluso il papa. Ma il vero problema è la disambiguazione del termine "eretico": di quali eretici si tratta?
COS'È L'ERESIA?
Iniziamo con una chiarificazione previa: che cos'è l'eresia? Il Can. 751, condensando la riflessione teologica e canonistica, la definisce come «l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa». L'eresia dunque richiede un oggetto specifico che non è l'errore relativo a qualsivoglia verità della fede, ma la negazione di quanto la Chiesa ha infallibilmente proposto come dogma rivelato, ossia come contenuto diretto della Sacra Rivelazione, per il quale richiede un assenso propriamente di fede. L'Assunzione della SS. Vergine, l'esistenza e l'eternità dell'Inferno, l'esistenza degli Angeli sono appunto verità de fide tenenda; mentre l'impossibilità per le donne di accedere al sacerdozio o la condanna dell'eutanasia sono invece dottrine insegnate infallibilmente dalla Chiesa e certamente connesse al dato rivelato, ma non definite (almeno per ora) come divinamente rivelate. La negazione di queste ultime non costituisce pertanto formalmente un'eresia.
Chiarito dunque che l'eresia non è un errore qualunque, anche grave, circa l'insegnamento della Chiesa, vediamo che nel canone citato ricorre per due volte l'aggettivo «ostinato». Entriamo quindi nella precisazione di chi sia l'eretico inteso dai testi canonici. La distinzione classica è quella tra "eretico occulto" ed "eretico manifesto", ma quest'ultimo termine ha generato molti equivoci, e sembra dunque opportuno sostituirlo con un altro più preciso, presente in letteratura, ossia quello di "eretico notorio".
Partiamo dall'eretico occulto: si tratta di chi commette il grave peccato formale di eresia - nel senso restrittivo spiegato sopra -, ma lo fa o esclusivamente in foro interno oppure anche mediante parole e atti. Dunque, quando parliamo di eretico occulto, non dobbiamo commettere l'errore di intendere questa espressione come se escludesse di per sé una dimensione manifesta, perché - e questo è il punto capitale - l'eretico rimane occulto fino a quando non venga dichiarato eretico dalle competenti autorità ecclesiastiche, oppure egli non ammetta la propria eresia davanti alle medesime, o ancora la sua eresia non venga provata senza che vi possano essere ragionevoli dubbi in contrario, come per esempio avviene nel caso di un prelato che dovesse abbandonare egli stesso la Chiesa cattolica. Solo così può essere provata effettivamente sia l'eresia nel suo contenuto formale che l'ostinazione del soggetto, che diviene dunque imputabile; ed è solo così che l'eretico diviene notorio.
L'ERETICO OCCULTO E L'ERETICO NOTORIO
Perché questa distinzione è così importante? Perché l'eretico occulto commette sì un peccato di eresia, con il quale perde la grazia e la fede, ma permane giuridicamente nella Chiesa. È solo l'eretico notorio che invece cessa di essere legalmente membro della Chiesa. Attenzione: l'appartenenza giuridica e legale alla Chiesa non è una questione secondaria, ma sostanziale. Come affermato all'inizio, che la Chiesa sia (anche) una società visibile, alla quale si appartiene mediante vincoli giuridici, è un dogma di fede. Dunque, mentre l'eretico occulto si separa "solo" spiritualmente dalla Chiesa, ma non giuridicamente, l'eretico notorio si separa da essa in entrambe le dimensioni.
Ora, le affermazioni di papa Paolo IV, come anche di tutti i teologi che affermano che il prelato eretico perde ipso facto il proprio ufficio, si riferiscono all'eretico notorio, non a quello occulto. Se così non fosse, il giudizio di eresia sarebbe lasciato al libero esame di ciascuno, provocando inevitabili divisioni interne tra chi ritiene che Tizio sia eretico e chi non lo ritiene tale, e dunque tra chi ritiene che Caio sia ancora vescovo o papa e chi no. Ed è infatti quanto avviene nel variegato mondo sedevacantista da decenni.
Ora, se è già compito piuttosto arduo dimostrare l'effettiva eresia (occulta) di Jorge Mario Bergoglio, prima e dopo la sua elezione, posta la materia precisa dell'eresia, allo stato attuale non è di certo possibile dimostrare che egli sia stato o sia un eretico notorio. Qui si aprirebbe un lungo discorso se sia possibile che un Papa, mentre è in carica, possa diventare eretico notorio (sulla possibilità di divenire eretico occulto non ci sono serie obiezioni), perché il Papa non può essere giudicato da nessuno. Ma questo è un altro tema. A noi basta aver mostrato che, purtroppo, Mons. Viganò sta trascinando centinaia di persone nello scisma, che egli stesso rivendica, dal momento che ha ripetutamente e pubblicamente affermato di non riconoscere l'autorità del Sommo Pontefice, con il quale tutti i vescovi cattolici sono in comunione, sulla base di un passo falso.
Abbracciare la posizione di Mons. Viganò comporta necessariamente l'ammissione che la Chiesa cattolica, in quanto società visibile e gerarchicamente ordinata (e non ve n'è un'altra), è di fatto venuta meno, che la Chiesa, nella forma che Gesù Cristo le ha conferito, non è dunque indefettibile. Che le porte degli inferi hanno prevalso contro di essa. Il che è un'eresia.
25 JUN. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7836
VIGANO' E LEFEBVRIANI, L'ILLUSIONE DI UNA TRADIZIONE SENZA CHIESA di Luisella Scrosati
Due fulmini hanno segnato il cielo tradizionalista, nelle giornate del 19 e 20 giugno. Il primo riguarda la convocazione da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede di Mons. Carlo Maria Viganò, ex Nunzio apostolico per gli Stati Uniti, arcivescovo titolare della sede soppressa di Ulpiana.
Con una lettera dell'11 giugno scorso, firmata dal Segretario per la Sezione Disciplinare, Mons. John J. Kennedy, il Dicastero ha notificato all'interessato l'avvio di un processo penale extragiudiziale a suo carico per delitto di scisma e lo aveva invitato a presentarsi presso il palazzo del medesimo Dicastero il 20 giugno, «affinché lo stesso possa prendere nota delle accuse e delle prove». Nella stessa lettera, il Dicastero ha elencato il venir meno di alcuni «elementi necessari per mantenere la comunione con la Chiesa cattolica: negazione della legittimità di Papa Francesco, rottura della comunione con lui e rifiuto del Concilio Vaticano II». Il Dicastero ha altresì assicurato la necessaria facoltà di essere difeso o rappresentato da un Avvocato o da un Procuratore.
A parte la generica «rottura della comunione», che significa tutto e niente, le altre due accuse sono purtroppo vere. E Mons. Viganò le ha confermate nella sua risposta pubblicata sul blog curato da Aldo Maria Valli, che nel frattempo sta raccogliendo lettere di solidarietà all'Arcivescovo ed approvazione della sua posizione. Esternazioni senza dubbio sincere, ma che nei toni e nei contenuti mettono purtroppo in luce quanto ormai si sia andati oltre una legittima opposizione agli errori che serpeggiano ovunque, anche all'interno del Dicastero stesso. E questo "oltre", nella tradizione della Chiesa, significa scisma.
LE ACCUSE, UN MOTIVO DI ONORE
In questa risposta, che porta la data del 20 giugno, dunque il giorno stesso in cui l'Arcivescovo sarebbe dovuto comparire a Roma per la sua difesa, Mons. Viganò considera le accuse a suo carico «un motivo di onore»: «Credo che la formulazione stessa dei capi d'accusa confermi le tesi che ho più e più volte sostenuto nei miei interventi. Non è un caso che l'accusa nei miei confronti riguardi la messa in discussione della legittimità di Jorge Mario Bergoglio e il rifiuto del Vaticano II: il Concilio rappresenta il cancro ideologico, teologico, morale e liturgico di cui la bergogliana "chiesa sinodale" è necessaria metastasi».
La reazione di Viganò è un copia-incolla di quella che fu di Mons. Marcel Lefebvre, che egli esplicitamente evoca: «Cinquant'anni fa, in quello stesso Palazzo del Sant'Uffizio, l'Arcivescovo Marcel Lefebvre venne convocato e accusato di scisma per aver rifiutato il Vaticano II. La sua difesa è la mia, le sue parole sono le mie, miei sono i suoi argomenti dinanzi ai quali le Autorità romane non hanno potuto condannarlo per eresia, dovendo aspettare che consacrasse dei Vescovi per avere il pretesto di dichiararlo scismatico e revocargli la scomunica quando ormai era morto». Posizione che inevitabilmente porterà ad una scomunica.
Ed anche la Fraternità San Pio X, fondata proprio da Mons. Lefebvre, fa parlare di sé, dopo che il Superiore del Distretto di Francia, l'abbé Benoît de Jorna, ha iniziato ad avvisare che nuove consacrazioni episcopali sono all'orizzonte. Nella Lettre aux Amis et Bienfaiteurs, pubblicata il 19 giugno, l'abbé de Jorna ha infatti scritto: «Il 30 giugno 1988, l'arcivescovo Lefebvre ha compiuto un'"operazione-sopravvivenza" sulla Tradizione cattolica consacrando quattro vescovi ausiliari. Questi vescovi, che all'epoca erano abbastanza giovani, lo sono ovviamente meno trentasei anni dopo. Poiché la situazione della Chiesa non è migliorata dal 1988, è diventato necessario prendere in considerazione la possibilità di dare loro degli assistenti, che un giorno diventeranno i loro sostituti. Quando il Superiore Generale annuncerà questa decisione, ci si potrà aspettare un'esplosione mediatica contro i "fondamentalisti", i "ribelli", gli "scismatici", i "disobbedienti" e così via. A quel punto, dovremo affrontare contraddizioni, insulti, disprezzo, rifiuto, forse anche rotture con le persone a noi vicine».
SEMINARIO D'ÉCÔNE
De Jorna non è un "prete qualunque" nella Fraternità San Pio X. Ordinato nel 1984 da Mons. Lefebvre, venne nominato superiore del distretto francese, per poi divenire, nel 1996, rettore del Seminario d'Écône, incarico che coprirà per oltre vent'anni; nel 2018 divenne nuovamente superiore del Distretto di Francia, il maggiore insieme a quello degli Stati Uniti, in sostituzione dell'abbé Christian Bouchacourt, nominato nel frattempo consigliere generale della Fraternità San Pio X.
De Jorna attribuisce ai quattro vescovi consacrati nel 1988 il titolo di "ausiliari", mostrando in questo modo una delle tante incongruenze della Fraternità San Pio X: ogni vescovo ausiliario deve infatti ricevere dalla Santa Sede una lettera apostolica che egli deve mostrare al proprio Ordinario per prendere possesso del proprio ufficio; ed è di norma l'Ordinario a costituire il vescovo ausiliario, con il permesso della Santa Sede, o comunque qualcuno indicato sempre dal Papa. Per nessuno dei quattro vescovi è stata data una lettera apostolica, né possono essere considerati ausiliari di un vescovo (Lefebvre) che, all'epoca delle ordinazioni, non aveva alcuna giurisdizione ed era persino sospeso a divinis.
Nell'ottica della Fraternità San Pio X queste ordinazioni furono necessarie appunto per l'operazione "salvataggio della tradizione", salvataggio che si renderebbe necessario anche oggi e che giustificherebbe pertanto nuove consacrazioni episcopali. L'abbé de Jorna ha il merito di mettere in luce la vera logica della Fraternità San Pio X, ossia quella di essere l'unica vera chiesa, che dunque ha bisogno dei "suoi" vescovi. Nel finale della lettera, egli afferma infatti la necessità della virtù della fortezza per essere fedeli «alla vera Tradizione della Chiesa (...) e anche alla Fraternità San Pio X, arca di salvezza suscitata dalla Provvidenza nel mezzo del diluvio che minaccia d'inghiottire la Chiesa e la civiltà». Un riferimento - quello all'Arca - decisamente significativo, dal momento che i Padri hanno visto nell'Arca del patriarca Noè la figura della Chiesa, fuori della quale non c'è salvezza. L'ex-direttore del Seminario d'Écône non sembra invece farsi troppi scrupoli nell'identificare la Fraternità San Pio X con l'arca e dunque con la Chiesa. Dunque, extra Fraternitatem nulla salus.
ATTITUDINE SCISMATICA
Un atteggiamento chiaramente scismatico, che si rende evidente anche nella sua esortazione, quasi un rimprovero, a quei giovani "nati" nella Fraternità San Pio X, che mancano di seguire pienamente «la linea di assoluta fedeltà alla fede insegnataci dall'arcivescovo Lefebvre». «Non è forse - prosegue de Jorna - una realtà tangibile quella di questi giovani provenienti da famiglie pienamente impegnate nella battaglia della Fraternità San Pio X, di questi giovani che hanno frequentato solo le cappelle e le scuole della Fraternità San Pio X, e che si scoprono essere un giorno cristiani, il giorno dopo mondani? Un giorno Fraternità San Pio X, un giorno Ecclesia Dei, o persino carismatici; un giorno Messa tradizionale, un giorno Messa nuova; un giorno pellegrinaggio di Pentecoste in una direzione, un giorno pellegrinaggio nella direzione opposta?» [la Fraternità San Pio X promuove un pellegrinaggio di Pentecoste nella direzione inversa a quello celebre di Chartres]. Insomma, ragazzi contaminati.
Parole che dimostrano una volta di più che la Fraternità San Pio X purtroppo non è affatto cambiata nella propria attitudine scismatica, nonostante i passi compiuti da Benedetto XVI e poi da Francesco per una riconciliazione. Resterà da vedere quale sarà l'atteggiamento dell'attuale Papa di fronte a nuove consacrazioni episcopali: le legittimerà come ha legittimato confessioni e matrimonio, inaugurando così il cortocircuito di una impossibile gerarchia parallela senza giurisdizione e non soggetta né alla Santa Sede né all'Ordinario? Oppure farà finta di nulla? O comminerà una scomunica? Tutto è possibile, sotto Francesco.
24 ABR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7775
PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (4° e ultima parte) di Luisella Scrosati
Dedichiamo un'ultima riflessione alla questione relativa alla legittimità del papa riconosciuto universalmente e pacificamente dalla Chiesa come fatto dogmatico (per gli articoli precedenti, clicca qui), affrontando le due principali obiezioni che normalmente vengono sollevate.
Prima di tutto ricordiamo che i fatti dogmatici - tra i quali rientra la legittimità del pontefice riconosciuto universalmente - fanno parte delle verità connesse alla Rivelazione (per necessità storica); il che, in concreto, significa che la loro negazione finirebbe per contraddire uno o più punti della medesima Rivelazione. I fatti dogmatici devono pertanto essere tenuti in modo definitivo, non ipotetico (potrebbe essere così) o condizionale (sarebbe così, ma solo a condizione che). Il papa, una volta che ha ricevuto l'accettazione della Chiesa universale, è papa, qualunque contestazione si possa avere a riguardo.
1) IL DISSENSO DI UN GRUPPO
Una prima obiezione frequentemente sollevata contesta il senso dell’"accettazione universale", ritenendo che il dissenso di un gruppo, più o meno esteso, di fedeli e chierici, sia sufficiente per affermare la non universalità di tale accettazione. In sostanza, l'universalità dovrebbe essere intesa come una totalità matematica da parte dei battezzati. Occorre rilevare che, se così fosse, non si raggiungerebbe quasi mai la certezza della legittimità del papa, perché sarebbe sufficiente qualsiasi dissenso di un gruppo, dovuto a ragioni più o meno plausibili, per lasciare nell'incertezza la Chiesa universale. Questa incertezza si riverserebbe sugli atti del sommo pontefice, così che sarebbe sempre possibile rifiutare una definizione dogmatica o un insegnamento definitivo a motivo del fatto che la legittimità di tale papa era stata contestata da quel gruppo di fedeli e/o chierici.
Ma c'è una ragione più profonda che fa comprendere che il dissenso di fedeli e chierici non sia sufficiente ad inficiare l'universalità richiesta: quando si parla di "Chiesa universale" si intende non la semplice comunità dei battezzati - concezione protestante dell'Ecclesia -, ma la comunità dei battezzati uniti ai loro legittimi pastori, i vescovi. Se dunque i vescovi, nella loro universalità, riconoscono Tizio come vero papa, i fedeli sono tenuti ad aderire a questo insegnamento. L'ipotesi che tutti i vescovi si ingannino sulla legittimità del pontefice comporterebbe infatti una defezione di tutta la Chiesa docente su un fatto dogmatico e sul riconoscimento di chi è il Capo visibile della Chiesa, il che sarebbe una contraddizione diretta dell'infallibilità della Chiesa. Ma anche della sua indefettibilità, perché la Chiesa non può rimanere senza Capo, se non per quel tempo di sede vacante necessario per eleggere un nuovo pontefice. Verrebbe altresì meno la nota dell'unità della Chiesa, che è una delle quattro note professate nel Credo, perché ci troveremmo nella situazione in cui la Chiesa, vescovi e fedeli loro sottomessi, sarebbe separata dal suo Capo. Va da sé che, quando parliamo dell'insieme dei vescovi, intendiamo quanti hanno ricevuto una giurisdizione dal sommo pontefice e sono dunque in comunione con la Chiesa: non è sufficiente infatti l'ordinazione episcopale per fare di un sacerdote un vescovo.
2) SOLO A CONDIZIONE CHE...
La seconda obiezione riguarderebbe la condizionalità dell'accettazione pacifica universale, posizione che potremmo riassumere in questo modo: la dottrina sull'accettazione è valida, ma solo a condizione che...; oppure: è valida, ma non si applica a questo caso di pontefice universalmente accettato. Dunque vi sarebbero condizioni "aggiuntive" perché si possa ritenere questa dottrina nel caso concreto del papa Tizio. Per esempio, che siano state osservate tutte le norme dell'elezione del papa (dal 22 febbraio 1996 indicate nella Universi Dominici Gregis); o a condizione che il papa scelto dai cardinali non fosse eretico prima della sua elezione; o ancora, a condizione che il papa eletto non fosse iscritto alla Massoneria o ad altre associazioni proibite dalla Chiesa, per le quali si incorrerebbe nella scomunica; a condizione che la rinuncia di un eventuale papa dimissionario sia valida.
Si potrebbero aggiungere ulteriori argomenti condizionali, ma non serve a molto, perché le pur diverse condizionalità hanno in comune questa logica: occorre verificare che certe condizioni si siano verificate per poter ritenere applicabile al presunto papa in questione la dottrina sull'accettazione pacifica universale. Detto in altro modo: l'insegnamento sulla legittimità del papa non si applicherebbe a questo singolo caso, perché, in questo caso, non si sono verificate certe condizioni.
Ora, il punto è che l'unico caso in cui non si applica la dottrina sull'accettazione pacifica universale è che... non vi è stata un'accettazione pacifica universale! Ossia quando vi sono stati dei vescovi che hanno contestato quella specifica elezione, per delle precise ragioni legate alle condizioni previe del soggetto eletto o alle modalità dell'elezione: eresia, scisma, scomunica, incapacità mentale del candidato, simonia, brogli, costrizione nell'elezione, e così via.
Quando invece i vescovi (secondo Giovanni di San Tommaso, basterebbero i cardinali elettori) hanno universalmente riconosciuto Tizio come papa, allora, in virtù del fatto dogmatico, si ha la certezza che Tizio sia papa, a prescindere dal fatto che possa rivelarsi un pessimo papa e, soprattutto, a prescindere che si siano risolti eventuali dubbi sulla sua persona, sull'elezione e quant'altro. Perché il punto chiave dell'accettazione pacifica universale è proprio questo: poiché è impossibile che la Chiesa erri nell'unirsi a un Capo fasullo (per le ragioni dette sopra), dunque il papa riconosciuto universalmente è il Capo della Chiesa. La maggioranza dei teologi che trattano della questione ritiene che questa accettazione sia la prova che tutte le condizioni di validità, su cui si potrebbero sollevare dubbi, si sono di fatto verificate; altri si spingono ad affermare una sorta di eventuale sanatio in radice di eventuali deficienze; ma a noi interessa che tutti concordino con il fatto che l'accettazione universale è la garanzia che Tizio è papa.
Guardando nuovamente la questione da un altro punto di vista, possiamo dire che chi ritiene che, in questo caso specifico, il pontefice riconosciuto universalmente non è in realtà papa, per qualsivoglia ragione, non ha compreso il senso del fatto dogmatico. Sarebbe come colui che, di fronte ad un pronunciamento ex cathedra, mettesse in dubbio il dogma proclamato perché, a torto o a ragione, le argomentazioni addotte risulterebbero insufficienti o errate, oppure non limpido l'iter per giungere a tale pronunciamento. L'adesione di fede, in questo caso, viene data in ragione dell'infallibilità petrina, mentre, nel caso dell'accettazione universale, in ragione dell'infallibilità della Chiesa.
Dunque aveva ragione Martino V: l'accettazione di questo concreto papa, riconosciuto universalmente dalla Chiesa, non è solo una questione disciplinare, ma di fede. La Chiesa universale non può errare nell'unirsi al suo Capo visibile (unità della Chiesa), né la Chiesa può rimanere priva di lui (indefettibilità), né la Chiesa gerarchica può errare nell'insegnare che Tizio sia papa (infallibilità): l'adesione universale dei vescovi è un segno infallibile della legittimità del sommo pontefice.
9 ABR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7754
PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (3° parte) di Luisella Scrosati
Ripartiamo da Martino V. Nella contesa con i lollardi e gli ussiti, il papa aveva richiesto, come requisito per la confessione integrale della fede cattolica, che essi riconoscessero il papa legittimamente eletto, più precisamente quel papa riconosciuto universalmente e pacificamente dalla Chiesa.
Il grande teologo domenicano, Giovanni di San Tommaso (1589-1644), ha ripreso questo aspetto, sostenendo appunto che sia di fede il riconoscimento che questo preciso uomo "x", riconosciuto dalla Chiesa come papa, sia effettivamente il papa. Non si tratta di una tesi teologica, ma effettivamente di una verità strettamente legata alla fede; più tecnicamente rientra in quella categoria che teologicamente viene denominata "fatti dogmatici". Cerchiamo di capire di cosa si tratta.
Nell'articolazione della nostra adesione di fede alla dottrina insegnata dalla Chiesa, la Professio fidei del 1989 indica tre macro-categorie: l'adesione agli articoli del Credo e agli altri dogmi che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelati; l'adesione a tutto ciò che la Chiesa insegna in modo definitivo; infine l'ossequio dovuto all'insegnamento autentico. Nella seconda categoria, troviamo tutte quelle verità che, pur non essendo direttamente contenute nella Rivelazione, sono tuttavia connesse con essa. Ora, questo tipo di connessione può essere duplice: logica o storica. Un esempio piuttosto chiaro del primo caso è la condanna dell'eutanasia, che è logicamente connessa al divieto rivelato di non uccidere l'innocente. Quanto alle verità connesse storicamente alla Rivelazione, esse comprendono proprio i fatti dogmatici di cui abbiamo parlato sopra; la Nota dottrinale (1998) della Congregazione per la Dottrina della Fede ne riporta alcuni esempi: «la legittimità dell'elezione del Sommo Pontefice o della celebrazione di un concilio ecumenico, le canonizzazioni dei santi (fatti dogmatici); la dichiarazione di Leone XIII nella Lettera Apostolica Apostolicæ Curæ sulla invalidità delle ordinazioni anglicane».
LA LEGITTIMITÀ DELL'ELEZIONE DEL PAPA
La legittimità dell'elezione del papa rientra dunque tra i fatti dogmatici che devono essere tenuti come definitivi, dunque tra quei fatti storici strettamente connessi con la Rivelazione. L'importanza di questi fatti dogmatici mi pare venga ben messa in luce dal classico Compendio di Teologia Dogmatica, del teologo e medievalista bavarese, Ludwig Ott (1906-1985): «Se la Chiesa potesse sbagliare nel suo giudizio su questi fatti o verità, che sono indirettamente connesse con la Rivelazione, ne deriverebbero conseguenze inconciliabili con la sua istituzione divina e con la sua santità».
Prima di comprendere per quale ragione mettere in dubbio la legittimità dell'elezione del sommo pontefice comporterebbe gravi conseguenze, che vanno di fatto a erodere il dogma dell'istituzione divina della Chiesa, della sua indefettibilità e santità, dobbiamo chiarire che si tratta non di qualsiasi elezione del papa, ma di quella del papa universalmente e pacificamente accettato dalla Chiesa.
Giovanni di San Tommaso dà una ragione fondamentale per spiegare perché il mancato riconoscimento di un papa legittimamente eletto non è "solo" un problema disciplinare, ma dottrinale: perché il papa può essere considerato come la regula fidei vivente. Cerchiamo di capire cosa vuol dire questa affermazione. Il teologo domenicano non sta evidentemente affermando che il papa sia al di sopra della Rivelazione e di quanto la Chiesa ha già definito, e ancor meno che qualunque sua esternazione sia regola della fede. Il punto è un altro: il magistero della Chiesa, che il papa incarna quando intende definire qualcosa, sia agendo ex cathedra che quando intende insegnare in modo definitivo nel suo magistero ordinario, è la regola della fede prossima, che "comunica" la regola della fede remota (la Rivelazione). Dunque, se la Chiesa intera si ingannasse nel riconoscere dove sta questa regola della fede vivente, la Chiesa si ingannerebbe sulla fede stessa.
UN ESEMPIO
Facciamo un esempio. Checché se ne dica, san Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994), ha inteso intervenire in modo definitivo sull'impossibilità dell'ordinazione delle donne; il carattere definitivo di questo pronunciamento era stato ulteriormente ribadito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ora, attenzione: non poche persone, soprattutto negli Stati Uniti, rifiutano di riconoscere i pontefici da Giovanni XXIII (incluso) in poi, per varie ragioni; una di queste è la presunta illegittimità dell'elezione di Roncalli nel conclave del 1958, perché, basandosi su una propria interpretazione di quanto scritto da Benny Lai, nel suo noto libro Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa: i voti dei cardinali sarebbero confluiti nell'arcivescovo di Genova, il cardinale Siri, il quale avrebbe accettato e scelto per sé il nome di Gregorio XVII; poco dopo però avrebbe rinunciato, perché una parte consistente dei cardinali contrari avevano minacciato uno scisma. Dunque, l'elezione di Roncalli sarebbe stata nulla e tutti i papi seguenti non sarebbero papi legittimi.
Che cosa comporta una teoria del genere? Che tutta la Chiesa avrebbe recepito la definitività dell'insegnamento di Giovanni Paolo II, regola prossima della fede nel suo pronunciamento sul sacerdozio femminile, ingannandosi, perché Wojtyla in realtà (secondo loro) non era papa. Questo dubbio si potrebbe estendere a tutti i papi dei quali si sospetta la legittimità dell'elezione. Per cui si potrebbe ipoteticamente non essere mai certi di un pronunciamento ex cathedra, come, per es., l'assunzione al Cielo della SS. Vergine, per un dubbio sul fatto che Pio XII fosse veramente papa. E così via.
In sintesi, dichiarare come fatto dogmatico che il papa accettato dalla Chiesa sia veramente papa blinda ogni possibile messa in causa dell'insegnamento del papa, in quanto regola prossima della fede, ossia impedisce che si possano mettere in dubbio i suoi pronunciamenti infallibili o definitivi sulla base di un presunto dubbio sulla legittimità della sua elezione. Dunque, poiché non è possibile che la Chiesa universale si inganni, credendo quanto insegnato infallibilmente o definitivamente dal sommo pontefice, così non è possibile che la Chiesa universali erri ritenendo papa uno che non lo è.
Per evitare fraintendimenti, è necessario precisare che questo fatto dogmatico appena descritto riguarda il fatto che il papa universalmente riconosciuto sia il vero papa e non che sia un buon papa, un papa santo o un papa che non pronuncia errori teologici o perfino eresie. Questi ultimi aspetti non c'entrano nulla con quanto espresso della Professio fidei e spiegato da Giovanni di San Tommaso. Il quale invece aggiunge un corollario importante, ossia che l'universale e pacifica accettazione del papa da parte della Chiesa risolve anche ogni dubbio sulla legittimità della sua elezione: se Tizio è stato accettato come papa allora tutti i requisiti per la validità della sua elezione si sono verificati, e ogni dubbio che possa essere sollevato in un secondo momento decade. Diversamente, basterebbe sollevare dei dubbi per non avere più la certezza della validità dell'elezione del pontefice.
Proseguiremo il discorso nei prossimi articoli, ma è bene ancora una volta ribadire che stiamo parlando del papa universalmente accettato dalla Chiesa, non di un papa la cui elezione è stata contestata da una parte della gerarchia.
Nota di BastaBugie: l'autrice del precedente articolo, Luisella Scrosati, nell'articolo seguente dal titolo "Il Papa legittimo e l’accettazione universale della Chiesa" spiega perché la Chiesa universale non può errare nel sottomettersi ad un papa non legittimo. Questo fatto dogmatico discende dalla promessa di Cristo.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 17 marzo 2024:
L'accettazione da parte della Chiesa del papa scelto dai cardinali non è un mero pro forma, ma l'atto fondamentale con cui la Chiesa universale riconosce il proprio capo, Vicario di Cristo, e vi si sottomette. Perché la sottomissione al papa legittimo, quando egli comanda all'interno dei limiti della propria potestà suprema, è indispensabile per appartenere alla Chiesa.
Riprendendo le considerazioni di Giovanni di San Tommaso (vedi articolo precedente), il cardinale Charles Journet (1891-1975), indiscusso teologo e autore della "summa" di ecclesiologia L'Église du Verbe Incarné, ricordava che l'accettazione pacifica universale «è un atto con cui la Chiesa impegna il suo destino. È quindi un atto di per sé infallibile e immediatamente conoscibile come tale»; la conseguenza di questa infallibilità è che questa accettazione manifesta e perciò riconoscibile assicura che «tutti i requisiti per la validità dell'elezione sono stati soddisfatti» (op. cit., I, 1955, p. 624). L'accettazione, secondo Journet, si verifica in due in due modi: negativamente, se l'elezione non viene contestata; positivamente, quando «l'elezione viene dapprima accettata da coloro che sono presenti e in seguito dagli altri».
Il punto centrale, nell'esposizione di Journet, è che la Chiesa ha il diritto di eleggersi un papa, perché Cristo stesso ha fondato la Chiesa su Pietro e sui suoi successori, che sono principio di unità, regola della fede, sede della giurisdizione suprema. Da questo diritto discendono due diritti conseguenti fondamentali: il primo è che la Chiesa ha il diritto d
3 ABR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7750
PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (2° parte) di Luisella Scrosati
La lunga crisi del Grande Scisma d'Occidente aveva messo a dura prova l'unità della Chiesa. Non solo durante i quarant'anni dello Scisma ma anche successivamente non fu facile dipanare il groviglio della legittimità dei tre pontefici. In particolare, quella del cardinale Baldassarre Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII (ca 1370-1419), quando venne eletto al Concilio di Pisa del 1410. Basti pensare che papa Martino V (1369-1431), eletto l'11 novembre 1417 durante il Concilio di Costanza, ossia il papa del (provvisorio) ritorno all'unità, si riteneva successore non di colui che oggi consideriamo il papa legittimo, ossia Gregorio XII (ca 1335-1417), ma appunto di Giovanni XXIII. Dunque un papa legittimo, riteneva di succedere ad un papa in realtà illegittimo...
Ad essere ancora più sorprendente è invece il fatto che Cossa/Giovanni XXIII risultava nella lista dei papi legittimi ancora nell'Annuario Pontificio del 1946! Una prova indiretta della convinzione della sua legittimità la troviamo anche nel famoso romanzo di Robert H. Benson, Il Padrone del Mondo, pubblicato nel 1907; Benson immaginava che tra gli ultimi due papi della storia della Chiesa ci sarebbe stato un "Giovanni XXIV", proprio perché agli inizi del Novecento, cinque secoli dopo il Grande Scisma, Cossa era ancora considerato papa legittimo. Mentre l'ultimo papa immaginato da Benson prende il nome di Silvestro III, perché Giovanni de' Crescenzi Ottaviani (ca 1000 - ca 1062), che prese proprio il nome di Silvestro III e il cui pontificato durò poco meno di due mesi, è stato considerato antipapa fino a tempi recenti.
Insomma un antipapa considerato papa per secoli e un papa legittimo ritenuto antipapa. Altri casi analoghi si sono verificati nella storia della Chiesa, come, per esempio, quello di Pietro Filargis/Alessandro V (ca 1339-1410), altro "papa" eletto al Concilio di Pisa, così che nei tondi della Basilica di San Paolo fuori le Mura vi sono raffigurati antipapi come fossero sommi pontefici, mentre non compaiono le immagini dei papi legittimi.
GIOVANNI XXIII
Torniamo a Cossa/Giovanni XXIII. Il 27 ottobre 2018, il pronipote di Angelo Roncalli, Marco Roncalli, saggista e biografo del "papa buono", scrisse un interessante articolo per La Stampa, nel quale rivelava alcuni fatti inediti che portarono il Patriarca di Venezia a scegliere il nome di Giovanni XXIII e non quello di Giovanni XXIV.
Roncalli desiderava assumere il nome di Giovanni, perché era quello del padre e della chiesa nella quale era stato battezzato, oltre che, ovviamente, dell'Apostolo diletto, del Battista e primo nome di Marco, l'evangelista. Ma c'era la questione di Cossa/Giovanni XXIII: se questi veniva considerato papa, allora Roncalli avrebbe dovuto seguire la numerazione successiva; in caso contrario, assumere la stessa del Cossa.
All'"appuntamento" del 28 ottobre 1958, giorno della sua elezione al Soglio di Pietro, il cardinale Roncalli arrivò comunque ben preparato. Nel settembre del 1958, dunque un mese prima della sua elezione, Roncalli era stato chiamato a Lodi da monsignor Tarcisio Benedetti. Roncalli si trovava, insieme ad altri invitati, in una sala del Palazzo episcopale, la "Sala gialla", dove vi era una grande raffigurazione di Baldassarre Cossa/Giovanni XXIII. Il dipinto ricordava l'evento dell'incontro tra il cardinale napoletano e l'imperatore Sigismondo, uniti nell'intento di porre fine alla divisione e che determinò l'indizione del Concilio di Costanza. Una frizzante disputa tra due storici si accese sul personaggio rappresentato nel dipinto, alla presenza del Patriarca: uno storico riteneva che Cossa fosse papa legittimo, un altro che invece fosse antipapa. Sembra che Roncalli abbia cercato di conciliare gli animi, affermando che un futuro papa Giovanni avrebbe risolto la questione: se si fosse chiamato Giovanni XXIII, significava che Cossa era stato un antipapa; se XXIV, Cossa doveva essere considerato papa legittimo.
DURANTE IL CONCLAVE
Un'altra testimonianza riportata nell'articolo, di molto precedente a quella appena menzionata, proviene dalla rivista Sursum corda (1974) del Seminario Romano. In un ricordo di Raffaele Boyer, compagno di Roncalli, è emerso che, dopo la morte di Leone XIII (20 luglio 1903), il futuro papa era piuttosto contrariato dal fatto che Baldassarre Cossa fosse considerato papa legittimo nei diversi libri di storia della Chiesa da lui consultati, così come pure sull'Annuario Pontificio. È più che probabile che Roncalli ritenesse vera la "leggenda nera" su Cossa, ma, a parte questo, il Concilio di Costanza lo aveva comunque dichiarato non legittimo, ed egli propendeva perciò per la sua illegittimità.
Il segretario particolare di Giovanni XXIII, mons. Loris Capovilla, ha testimoniato che, durante il conclave, Roncalli gli avrebbe chiesto di procurargli l'Annuario Pontificio. È possibile che egli avesse percezione, da come stavano andando le votazioni e i confronti tra i cardinali, che lo Spirito Santo stesse soffiando su Venezia, come poi di fatto avvenne; e pertanto il Patriarca voleva essere certo di non compiere un errore nella scelta del nome, assicurandosi che l'Annuario portasse il nome di ventidue papa "Giovanni" e non ventitré.
Aneddoti giovannei a parte, la storia mostra come la questione della legittimità di un papa non sia sempre pacifica. Occorre però fare una precisazione molto importante: i dubbi riguardo ad un pontefice sono legittimi nella misura in cui la sua accettazione non è stata pacifica e universale da parte della Chiesa. E in effetti, il conclave che portò all'elezione di Urbano VI avvenne sotto la minaccia del popolo romano, elemento che fin da subito creò dubbi sulla validità di quella elezione, dubbi sostenuti da una parte degli stessi cardinali che a quel conclave parteciparono. È solo in queste situazioni che vale il principio papa dubius, papa nullus, secondo la breve spiegazione che avevamo dato nello scorso articolo. Quando invece un papa viene accettato pacificamente e universalmente dalla Chiesa, il discorso cambia radicalmente.
Nota di BastaBugie: l'autrice del precedente articolo, Luisella Scrosati, nell'articolo seguente dal titolo "Martino V e la questione del Papa legittimo" prosegue con il racconto di quel travagliato periodo di storia della Chiesa.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 3 marzo 2024:
Martino V (1369-1431) fu il papa finalmente unico, dopo quarant'anni di scisma. Eletto durante il Concilio di Costanza, l'11 novembre 1417, riuscì a governare la Chiesa per un tempo relativamente lungo (13 anni). Oddone Colonna, questo il suo nome di battesimo, aveva erroneamente sostenuto la legittimità di Giovanni XXIII, del quale si considerava successore.
C'è un aspetto di questo pontificato, che merita di essere portato alla luce. Martino dovette porre mano alle agitazioni alimentate da John Wyclif († 1384) e Jan Hus (ca 1371-1415). Il primo, originario dello Yorkshire, insegnante all'Università di Oxford, si fece alfiere di un movimento antipapale inglese, tanto più che si era nell'epoca dei papi avignonesi, papi cioè provenienti da e residenti nella nemica Francia. Scrisse numerosi testi teologici e raccolse attorno a sé un nutrito gruppo di predicatori popolari, i famosi lollardi. Il secondo, boemo, subì l'influenza di Wyclif e in sostanza ne abbracciò le posizioni ereticali. Sia i lollardi che gli ussiti ebbero grande diffusione nei paesi di origine dei due "fondatori".
Più nello specifico, entrambi erravano soprattutto riguardo alla natura della Chiesa e ai diritti e alle prerogative del papa. La loro sottolineatura sull'importanza della pietà personale dei ministri di Dio si spinse fino ad identificare la Chiesa con la comunità di coloro che vivevano ispirati a questa pietà. Essi sostenevano pertanto che la Chiesa non fosse quella visibile, che appariva corrotta e divisa, ma quella invisibile; e che pertanto, a dover essere riconosciuti come membri della Chiesa, non erano quanti erano annoverati tra il clero, e nemmeno quanti vi appartenevano giuridicamente e formalmente, ma esclusivamente i "veri fedeli", conosciuti solo da Dio. Mettevano in discussione la validità delle scomuniche comminate dai pontefici, la loro autorità, l'estensione del potere di legare e sciogliere, così come il fatto che il papa era il successore dell'apostolo Pietro. Per questa insufficiente comprensione della natura della Chiesa, essi ritenevano che fosse sufficiente la sola ordinazione per poter amministrare i sacramenti, inclusa la facoltà di assolvere: non era necessario alcun mandato o giurisdizione e, pertanto, nessuno poteva impedire lo svolgimento del ministero, nemmeno con sanzioni. Altri errori riguardavano le indulgenze, l'Eucaristia e il Purgatorio, e vennero tutti condannati al Concilio di Costanza.
Quando Oddone divenne papa, sia Wyclif che Hus erano già morti, ma il loro movimento imperversava in Europa. Martino V decise allora di emanare una bolla, la Inter cunctas (22 febbraio 1418), indirizzata ai vescovi e agli inquisitori, con una lista di domande da porre ai sospetti seguaci dei due contestatori, per verificare se credessero rettamente, secondo la fede cattolica.
3 ABR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7741
MEGLIO LA SEPOLTURA CHE LA CREMAZIONE, RETAGGIO DEL PAGANESIMO di Luisella Scrosati
Cremazione: sì o no? Ormai tutti i cattolici sanno che la cremazione, quando non è motivata da ragioni contrarie alla fede, viene ammessa e, di conseguenza, non vengono più negate le esequie. L'Istruzione Ad resurgendum cum Christo, della Congregazione per la Dottrina della Fede (15 agosto 2016) spiega che l'atto di cremare le spoglie mortali non comporta di per sé nulla di contrario né all'immortalità dell'anima né alla risurrezione della carne alla fine della storia.
Tuttavia, a più riprese, l'Istruzione insiste sul fatto che «la Chiesa raccomanda insistentemente che i corpi dei defunti vengano seppelliti nel cimitero o in altro luogo sacro». La cremazione non è dunque considerata come equivalente all'inumazione o alla deposizione, nonostante ormai tra noi cattolici sembra che la cremazione sia divenuta una pratica diffusa. Potremmo dire che per la cremazione è avvenuto qualcosa di analogo alla Comunione sulla mano: due pratiche per secoli sostanzialmente proibite sono state di recente ammesse (entrambe durante il pontificato di Paolo VI, rispettivamente nel 1963 e nel 1969), finendo per diventare addirittura preferenziali. E ciò, nonostante la Chiesa mantenga fermo che le due modalità non si collochino sullo stesso piano, ma l'una sia raccomandata, l'altra semplicemente permessa.
I CRISTIANI RIFIUTARONO LA CREMAZIONE
Come spiegare questa stranezza? Diamo prima una rapida occhiata a come, storicamente, i cristiani si siano posti di fronte alla cremazione. È fuori discussione che, fin dai primi secoli, i cristiani rifiutarono la pratica della cremazione in uso tra i pagani. Minucio Felice, autore cristiano del II-III secolo, scriveva nell'Octavius che i pagani si prendevano gioco della credenza della risurrezione dei morti, che essi consideravano alla stregua di aniles fabulas, favole da vecchiette; è a causa di questa credenza che i cristiani «esecrano i roghi e condannano le cremazioni». Dunque, anche ai pagani era chiaro che il rifiuto delle cremazioni era legato alla fede nella risurrezione della carne. Non dobbiamo pensare che i cristiani dei primissimi secoli fossero così sempliciotti da ritenere che questa pratica avrebbe impedito la risurrezione di corpi ridotti in ceneri: lo spettacolo dei corpi dei martiri smembrati, mangiati dalle fiere, scorticati, era più che sufficiente per metterli al sicuro dalla tentazione di pensare che Dio non avrebbe potuto resuscitare se non un corpo integro.
Qual è dunque questo legame tra il rifiuto della cremazione e la risurrezione della carne, che anche i pagani constatavano, pur senza capirne il senso?
L'inumazione è il segno più chiaro ed esplicito della dinamica insegnata da San Paolo: «Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Così (...) la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (1Cor, 15, 36. 42-44). "Seminare" il corpo mortale è il grande segno con cui i cristiani esprimono che quel corpo risorgerà glorioso; la Chiesa ha sviluppato i suoi riti funebri proprio su questo gesto così semplice e così importante, che apre il tempo dell'attesa. Come ogni buon contadino, anche la Chiesa semina e attende: semina corpi corruttibili e attende che, per la potenza divina, germoglino incorruttibili. Questo segno viene meno con la cremazione, che è appunto il contrario della semina e dell'attesa paziente, realizzando l'annientamento violento e repentino del corpo: le carni vengono bruciate a quasi mille gradi, provocando un movimento della salma per effetto della contrazione muscolare provocata dal calore; le ossa e i denti, che non bruciano, vengono frantumate e polverizzate a parte.
L'ETERNO RIPOSO
La cremazione è anche la distruzione del grande segno della morte come sonno-riposo, meravigliosamente espresso dalla preghiera del Requiem æternam, che si sposa perfettamente con l'atto di calare nella terra o nel sepolcro, in posizione orizzontale, il corpo del defunto, in continuità con l'insegnamento profetico: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno» (Dn 12,2). L'idea della morte-sonno è ripresa anche dal Signore Gesù, che così annunciava ai discepoli la morte dell'amico Lazzaro: «Il nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Nell'atto della sepoltura si esprime dunque questo segno della morte come sonno e riposo, ma che attende quel "risveglio", che Cristo opererà sui nostri corpi, alla fine del mondo.
Né si può trascurare il fatto che i cristiani vogliono conformare a Cristo la propria vita e la propria morte. E se non spetta a loro decidere come e quando morire, essi però possono disporre dei riti di sepoltura.
C'è poi anche un'importante questione: la cremazione distrugge alla radice la possibilità delle reliquie, la possibilità che le spoglie dei santi operino miracoli, perché lo Spirito Santo continua ad agire tramite questi resti benedetti, che sono stati il suo tempio.
Queste riflessioni a noi, figli di una mentalità razionalista e utilitarista, possono sembrare al massimo un po' romantiche. Quel che conta è l'utilità di un atto, oppure, in un'ipotesi migliore, se vi siano idee contrarie alla dottrina. Ma per secoli non è stato così. Forti non solo della fede, ma dell'espressione di questa fede nei segni, i cristiani hanno portato di fatto all'estinzione di questa pratica, che consideravano, a ragione, come ripugnante. Non è una questione di stomaco, ma di coerenza appunto nel segno. E la storia insegna che i segni sono fondamentali nella trasmissione della fede.
26 MAR. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7738
PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (1° parte) di Luisella Scrosati
Dopo il lungo periodo della "cattività avignonese" (1316-1377), durante il quale la Sede apostolica era stata trasferita nella città di Avignone da parte di Giovanni XXII (1244 ca - 1334), la città di Roma era rimasta senza pastore. I papi avignonesi, preceduti da Clemente V (1264-1314) che aveva trasferito la sede prima a Poitiers e poi a Carpentras, non risultarono così succubi delle politiche dei monarchi francesi; e tuttavia era chiaro che l'influenza francese esisteva. Il papato non riusciva a stare a Roma, lacerata dalle contese tra la famiglia Orsini e la famiglia Colonna; in Francia godeva sì di una libertà, ma pur sempre una "libertà vigilata": il peso dell'autorità ne risultava particolarmente indebolito. Iniziarono a comparire anche alcune correnti teoriche relativizzanti l'autorità pontificia, correnti che si facevano strada in ambito universitario sulle spalle di due grandi figure intellettuali del XIV secolo: il francescano Guglielmo di Ockham (1288-1347) e Marsilio da Padova (1275-1342).
A dare il colpo di grazia, in quella fase, alla credibilità del papato fu però la tragica scissione, che prese il nome di Grande Scisma d'Occidente, e che durò quarant'anni, coinvolgendo quattro papi e altrettanti antipapi.
Il ritorno del papa, da Avignone a Roma, realizzato da Gregorio XI (1330-1378), rappresentava agli occhi dello stesso pontefice la possibilità di una crisi peggiore, che avrebbe sommato il potenziale pericolo delle contese delle famiglie romane con quello dei maneggi avignonesi, rischiando di mettere il papato dentro ad un ginepraio inestricabile. Nel tentativo di evitare questo scenario, Gregorio dispose che il conclave futuro avesse inizio subito dopo il suo decesso, senza attendere l'arrivo dei cardinali che risiedevano fuori dall'Urbe, e che il nuovo pontefice sarebbe stato eletto con una maggioranza semplice, per evitare il dilungarsi del conclave.
URBANO VI (1318-1389)
Morto dunque Gregorio il 27 marzo 1378, l'8 aprile i 16 cardinali presenti a Roma elessero l'arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI (1318-1389). Il quale si mostrò sì determinato nel voler intraprendere la riforma della Chiesa, ma si mise contro quasi tutti per il suo carattere scontroso e irascibile e i suoi modi del tutto inconcilianti. Pare che, tra l'altro, avesse dato dell'imbecille al cardinale Giacomo Orsini e della canaglia al cardinale arcivescovo di Amiens. Alcuni cardinali francesi, dapprima ad Anagni e poi a Fondi, dichiararono invalida l'elezione di Urbano VI a causa di pressioni esterne sul conclave, e il 20 settembre elessero il cardinale di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII (1342-1394) e pose la sua sede ad Avignone.
La cristianità d'Occidente si spaccò così in due: al papa romano prestarono fedeltà gli Stati nel centro-nord dell'Italia, i Regni d'Inghilterra, Ungheria, Polonia, Portogallo, Svezia, Norvegia e Danimarca, mentre al papa avignonese si strinsero i Regni di Francia, Aragona, Castiglia, Napoli, Sicilia e Scozia. Si videro cardinali contrapporsi ad altri cardinali, vescovi a vescovi, abbazie ad abbazie, e persino nelle stesse diocesi e nei monasteri sorsero divisioni. Anche i santi erano divisi e contrapposti: a sostegno del papa di Roma si schierarono Caterina da Siena, Caterina di Svezia, il grande predicatore olandese Geert Groote; la riformatrice delle Clarisse, santa Coletta, il grande predicatore domenicano Vincenzo Ferreri e il giovane beato Pietro di Lussemburgo sostennero invece per un certo tempo la legittimità dei papi avignonesi, pur adoperandosi per tentare di ricomporre lo scisma.
La situazione era in stallo, perché da entrambe le parti si portavano ragioni convincenti per sostenere la legittimità dell'uno e l'illegittimità dell'altro pontefice. I quali si scomunicarono a vicenda. Vennero persino contrapposte lacrime a lacrime. Due grandi giuristi si affrontarono sulla questione: da una parte il laico Giovanni da Legnano, insegnante di diritto canonico e civile, che difese la legittimità dell'elezione di Urbano VI nel De fletu Ecclesiæ, scritto proprio nell'anno dell'elezione del pontefice (1378); dall'altra l'abate Jean Le Fèvre (1320-1390), poi vescovo di Chartres, statista e cancelliere di Luigi I e Luigi II d'Angiò, che rispose con il De planctu bonorum (1379), difendendo l'elezione di Clemente VII.
ROMANO LO VOLEMO, O ALMANCO ITALIANO!
A ben vedere, il conclave che aveva portato all'elezione di papa Urbano era stato piuttosto movimentato. I romani, sapendo che al conclave la maggioranza dei cardinali era composta da francesi, fecero sentire le loro minacce, con il famoso grido: «Romano lo volemo, o almanco italiano!». Grida che si materializzarono nell'invasione nella stanza del Conclave... Dunque, le pressioni ci furono, ma sarebbe stato doveroso verificare se fossero state tali da viziare formalmente il conclave. Ma non fu per questa strada che si volle risolvere la situazione: l'obiettivo era mettere fuori gioco Urbano VI, il cui comportamento era sempre più ingestibile. E così ne nacque uno scisma lacerante.
La situazione però andò persino peggiorando. Nella linea dei papi di Roma, a Urbano VI successero Bonifacio IX (1350 ca - 1404), Innocenzo II (1336 ca - 1406), che regnò per soli due anni, e Gregorio XII (1335 ca - 1417); all'antipapa Clemente VI, successe, nel 1394, il cardinale spagnolo Pedro Martínez de Luna, che prese il nome di Benedetto XIII (1328-1423). I tentativi tra le due parti di risolvere lo scisma non andarono a buon fine; anche quello più recente, tra Gregorio XII e Benedetto XIII, finì in nulla. Questa situazione prolungata, dopo trent'anni di divisione, portò all'esasperazione tra i cardinali di entrambe le parti, i quali decisero di trovare essi stessi una soluzione per porre fine allo scisma... e ne crearono un altro.
Riuniti in concilio a Pisa, il 25 marzo 1409, dichiararono scismatici ed eretici i "due papi", i quali, sulla base del principio che il papa eretico non è più papa, dovevano perciò essere sostituiti. Venne così eletto un "terzo papa" (secondo antipapa), nella persona dell'arcivescovo di Milano, Pietro Filargo, che prese il nome di Alessandro V (1339-1410); il quale però morì l'anno dopo la sua elezione e venne sostituito dal promotore del concilio pisano, il cardinale napoletano Baldassarre Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII (1370ca-1419). Cossa era stato tra i più attivi per ricomporre la frattura tra Gregorio XII e Benedetto XIII, ma senza riuscirvi. Per questo tentò la strada di un concilio - che sarà poi quello di Pisa - e accettò di tirarsi da parte durante il concilio di Costanza (1414), per cercare di ricomporre la crisi.
Nota di BastaBugie: l'autrice del precedente articolo, Luisella Scrosati, nell'articolo seguente dal titolo "La Sede vacante e il caso san Vincenzo Ferreri" spiega perché nemmeno in una situazione ingarbugliatissima, nata dall'incertezza sull'elezione di Urbano VI, si può dichiarare la Sede vacante.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18 febbraio 2024:
Nel 1409, dopo trent'anni di "convivenza" tra due papi (di cui solo uno, ovviamente, legittimo), il tentativo di risolvere la dolorosa e disorientante situazione era sfociata in uno strappo ulteriore: l'elezione di un "terzo papa", come si è visto, nella persona di Pietro Filagro (Alessandro V), durante il concilio di Pisa (1409). Ma torniamo indietro agli anni in cui vi erano "solo" due papi: quello di Roma e quello di Avignone. A sostenere la legittimità di Benedetto XIII, antipapa avignonese dal 1394 al 1423, vi era un grande santo: il dotto frate domenicano Vincenzo Ferreri (in valenciano, Vicent Ferrer; 1350-1419).
Nato a Valencia ed entrato nell'Ordine dei Frati predicatori in giovanissima età, insegnò teologia nella città natale e venne notato per la sua preparazione dal cardinale aragonese Pedro de Luna, il futuro Benedetto XIII. Il cardinale aveva dapprima cercato di sostenere la legittimità di Urbano VI, per poi sostenere l'invalidità del conclave che lo elesse e divenendo così sostenitore dell'antipapa Clemente VII. Eletto "pontefice", scelse proprio Vincenzo Ferreri come suo confessore. San Vincenzo sosteneva la legittimità di Benedetto, ma non era indifferente alla grande lacerazione della cristianità, divisa tra due e poi tre obbedienze, che minacciavano di instaurarsi in modo perpetuo, portando avanti tre linee di successione di prelati che rivendicavano di essere il papa legittimo.
Nel 1413, l'imperatore Sigismondo (1368-1437) convocò un concilio a Costanza, che si sarebbe svolto nel novembre dell'anno seguente, con il preciso scopo di risolvere lo scisma. Dei tre "papi", solo Giovanni XXIII, che quel concilio aveva appoggiato proprio con l'intento di uscire dalla crisi, accettò di presentarsi; ma proprio a lui venne riservato il trattamento più rude e scorretto: fu accusato ingiustamente di ogni nefandezza e deposto. La "leggenda nera" sul cardinale Baldassarre Cossa fu portata avanti per secoli, e solo di recente una preziosa monografia ne ha riscattato la memoria (M. Prignano, Giovanni XXIII. L'antipapa che salvò la Chiesa, Brescia, 2019, con prefazione del card. Walter Brandmüller): antipapa sì, ma non delinquente.
La pungente penna di chi sa coniugare una profonda fede con l'insegnamento della Chiesa
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Autor | BastaBugie |
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