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Se l'educazione è l'incontro della persona con il vero, il bello e il buono, in ogni materia non può mancare Gesù Cristo
28 MAY. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7804
AGLI ISLAMICI NON PIACE, A SCUOLA DANTE HA I GIORNI CONTATI di Marco Lepore
Aveva ragione da vendere, il compianto cardinal Giacomo Biffi, quando, parlando della immigrazione, affermava che «un ecumenismo politico astratto e imprevidente», incapace di comprendere i criteri con cui accogliere gli immigrati, avrebbe preparato per il nostro popolo «un futuro di lacrime e di sangue». E quel futuro di lacrime e sangue è arrivato. Ma, occorre ribadirlo, il problema non sono innanzitutto loro, gli islamici, bensì noi, i cristiani (o, meglio, i post-cristiani), che stiamo segando con masochistico livore il ramo su cui la nostra civiltà sta appollaiata.
Il fatto: in una scuola media della provincia di Treviso, due studenti sono stati esonerati dallo studio della Divina Commedia di Dante Alighieri su richiesta dei genitori musulmani, che hanno ritenuto l'opera incompatibile con la propria religione, sostenendo che contenga offese all'islam. Ma c'è di più: l'insegnante di lettere della scuola di Treviso, infatti, ha avuto la "geniale" idea di chiedere agli alunni che non seguono l'ora di religione (chissà perché solo a loro...) di sondare il parere dei genitori sull'insegnamento di opere a carattere religioso e, guarda un po', di fronte al prevedibilissimo parere negativo, ha sostituito d'emblée lo studio di Dante con quello di Boccaccio.
Indubbiamente, la Divina Commedia non è tenera con il fondatore della religione islamica, ma ha le sue buone ragioni. Dante lo colloca all'Inferno, al canto 28esimo, tra i dannati, colpevole di non essere cristiano e per avere favorito la separazione della comunità degli uomini. Del resto, la storia non mente, e sin dagli inizi (e ancora oggi) l'impeto per la sottomissione degli "infedeli" ha prodotto carneficine, "guerre sante" di conquista, distruzione di luoghi sacri e altre multiformi forme di oppressione nei confronti di chi aderisce ad altri credo religiosi. Come pena per tali azioni, Dante descrive Maometto sottoposto ad orrende mutilazioni del corpo da parte di un diavolo, con il corpo squartato e le interiora che fuoriescono.
DIVINA COMMEDIA INDIGESTA
Certamente non deve essere piacevole, per chi professa la fede islamica, leggere simili cose, tuttavia - al di là delle ragioni che da parte cristiana si potrebbero addurre - occorre tenere presente che chi si trasferisce in un paese straniero, sede di una tradizione e religione diverse dalla propria, è tenuto a integrarsi, accettando e rispettando anche ciò che non è conforme alle proprie convinzioni. Diversamente, meglio scegliere un paese con una cultura affine alla propria.
Assistiamo, invece, alla dinamica opposta, particolarmente nei paesi europei. Già da qualche anno, per esempio, in alcuni paesi come Olanda e Belgio (sedi di importanti comunità islamiche), è stata adottata una versione della Divina Commedia curata dalla traduttrice fiamminga Lies Lavrijsen, ritradotta in modo tale da evitare di urtare i musulmani. «Questa versione si rivolge a lettori più giovani e il cambiamento è pensato per non ferire inutilmente gli islamici», spiegò a suo tempo la traduttrice, affermando (vergognosamente!) che nella Divina Commedia «Maometto subisce un destino crudo e umiliante solo perché è il precursore dell'islam»; per questo motivo, pur riportando tutto l'episodio descritto da Dante, viene omesso il nome di Maometto, ritenuto «non necessario per la comprensione del testo letterario».
L'episodio della scuola di Treviso, che si inserisce sulla scia di quanto accaduto in occasione della fine del Ramadan e, in questi ultimi giorni, della vicenda della preghiera islamica all'interno della Università di Torino, altro non è che una ulteriore prova del processo di integrazione a rovescio che si sta attuando.
LA "PROFEZIA" INASCOLTATA DEL CARDINALE GIACOMO BIFFI
Forse vale la pena, allora, nella speranza che possano essere di aiuto a invertire la rotta o, quanto meno, a favorire una sana riflessione, rispolverare le raccomandazioni che il Cardinale Biffi fece allo Stato Italiano e anche alle comunità cristiane.
Tre convincimenti nei confronti dello Stato italiano:
«Di fronte al fenomeno dell´immigrazione, lo Stato non può sottrarsi al dovere di regolamentarlo positivamente con progetti realistici (circa il lavoro, l´abitazione, l´inserimento sociale), che mirino al vero bene sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni».
«Poiché non è pensabile che si possano accogliere tutti, è ovvio che si imponga una selezione. La responsabilità di scegliere non può essere che dello Stato italiano, non di altri; e tanto meno si può consentire che la selezione sia di fatto lasciata al caso o, peggio, alla prepotenza».
«I criteri di scelta non dovranno essere unicamente economici e previdenziali: criterio determinante dovrà essere quello della più facile integrabilità nel nostro tessuto nazionale o quanto meno di una prevedibile coesistenza non conflittuale. Un "ecumenismo politico" (per così dire), astratto e imprevidente, che disattendesse questa elementare regola di buon senso amministrativo, potrebbe preparare anche per il nostro popolo un futuro di lacrime e di sangue».
Tre persuasioni semplici ed essenziali per le comunità cristiane:
«Non è per sé compito della Chiesa e delle singole comunità risolvere i problemi sociali che la storia di volta in volta ci presenta. Noi non dobbiamo perciò nutrire nessun complesso di colpa a causa delle emergenze anche imperiose che non ci riesce di affrontare efficacemente».
«Dovere statutario del popolo di Dio e compito di ogni battezzato è di far conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, e il suo necessario messaggio di salvezza. E´ un preciso ordine del Signore e non ammette deroga alcuna. Egli non ci ha detto: "Predicate il Vangelo a ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama».
«Allo stesso modo, è nostro dovere l´osservanza del comando dell´amore. Di fronte a un uomo in difficoltà - quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità».
Sono raccomandazioni che risalgono a più di venti anni fa, ma conservano tutta la loro forza e ragionevolezza. Se i nostri politici e il nostro popolo avessero avuto la volontà e la forza di seguirle, forse oggi staremmo tutti meglio. Anche gli immigrati musulmani, che magari sarebbero molto meno numerosi, ma sicuramente più integrati e con maggiori possibilità di una vita dignitosa.
Nota di BastaBugie: Anna Bono nell'articolo seguente dal titolo "A Torino il jihad in Università ha una lunga tradizione" spiega cosa è successo nella sede universitaria di Palazzo Nuovo che però era già stato teatro di azioni estremiste, come nel 2003 quando si inneggiò ai terroristi di Nassiriya.
Ecco l'articolo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 27 maggio 2024:
Il 23 maggio l'imam Brahim Baya ha pregato a Palazzo Nuovo, una delle sedi universitarie di Torino occupate dagli studenti che vogliono il boicottaggio degli atenei israeliani. Sembra che l'idea sia partita dagli studenti musulmani che aderiscono alla protesta contro Israele. Era previsto che il giorno successivo, un venerdì, pregasse anche al Politecnico, presso la sede centrale, ma su richiesta del Rettore del Politecnico, Stefano Paolo Corgnati, la Questura di Torino ha diffidato l'imam e l'evento è stato annullato.
«È scandaloso che la Questura abbia vietato una preghiera. Il problema è l'islamofobia di questo paese». Questa è stata la reazione di Baya e mai accusa è stata più infondata perché è quel che lui ha detto a Palazzo Nuovo la ragione della diffida. Parlando sia in arabo che in italiano l'imam ha lanciato un invito al jihad contro Israele definendo quella dei palestinesi una resistenza necessaria contro l'ingiustizia e il male. Il popolo palestinese - ha detto - ha resistito «di fronte a questa furia omicida, questa furia genocida, uscita della peggiori barbarie della storia che non tiene in considerazione nessuna umanità, nessun diritto umano».
Penoso, per non dire altro, è stato il tentativo di difesa dell'imam che, secondo quanto riportano i mass media, sostiene di non aver attaccato Israele e dice che il significato della parola "jihad" effettivamente da lui usata è stato frainteso, questo perché «degli pseudo musulmani l'hanno utilizzata per seminare violenza e morte, bestemmiando Dio». Non si direbbero degli «pseudo musulmani» i gruppi jihadisti - Hamas compreso - che in tutto il mondo obbediscono all'ordine di conquistare all'islam l'umanità intera, se necessario con la forza come aveva incominciato a fare Maometto dopo essersi trasferito dalla Mecca a Medina.
Ma non è questo il punto. Brahim Baya, che pur di attaccare le autorità accademiche nega di essere un imam, dovrà semmai rendere conto di queste affermazioni ai suoi correligionari. Il fatto rilevante è che le sue parole sarebbero gravi, allarmanti, minacciose anche se le avesse pronunciate in una moschea e non in una laica, indipendente sede accademica.
E allora la domanda che sorge è chissà quante volte le ha in effetti già proferite in una moschea; e in quante moschee italiane si parla in questi termini contro Israele, l'Occidente, gli infedeli. Sono trascorsi più di 20 anni da quando Magdi Cristiano Allam per la prima volta ha rivelato, dimostrandolo, che ci sono moschee in Italia nelle quali si istiga all'odio contro l'Occidente e si esalta il jihad.
13 FEB. 2024 · VIDEO: Alberto Sordi alla Biennale ➜ https://www.youtube.com/watch?v=lj438bBpX9w
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7688
ARTE MODERNA, IL CULTO DEL NONSENSO E DEL BRUTTO
L'opera dei critici diventa uno strumento per cambiare lo sguardo nelle masse nella realtà (VIDEO IRONICO: Alberto Sordi alla Biennale)
di Valentina Sessa
Oggigiorno dilaga un vero e proprio culto del nonsenso e del brutto, che oscilla tra il banale e il volgare o lo squallido, sia estetico che morale. La produzione artistica purtroppo non fa eccezione, in particolare dal secondo dopo guerra a oggi: costituisce esperienza diffusa non solo una certa fatica a comprenderne il significato, ma molto spesso, anche l'impressione che essa sia banale, fastidiosa, laida, "brutta". Alcuni esempi di famose opere discutibili sono: La fontana (orinatoio) di Marcel Duchamp, le tavole monocrome di Yves Klein, la Merda d'artista di Piero Manzoni, le Marylin o le Zuppe Campbell's di Andy Warhol, gli animali imbalsamati e immersi in formaldeide di Damien Hirst, i tagli di Lucio Fontana, i bambini impiccati di Maurizio Cattelan, i telai di Maria Lai. Altrettanto può dirsi per le innumerevoli installazioni fatte con oggetti di qualsiasi tipo.
GLI INTERPRETI DEL BELLO
Eppure la critica giudica molte di queste opere "capolavori", sollevando nel pubblico la sensazione di non avere gli strumenti culturali per comprendere tali "opere". Ma è corretto questo giudizio? Non dovremmo riuscire tutti a comprendere il significato di quanto vediamo, soprattutto quando l'opera non è espressione di una cultura diversa dalla nostra? E il senso della bellezza non è innato, così che ciascuno abbia titolo di esprimere un giudizio estetico pur non essendo uno storico o un critico dell'arte? Queste domande sono fondamentali per valutare tante opere - esaltate come produzione di "artisti" eretti a icone del nostro tempo - che, in realtà non sono capolavori come si vorrebbe far credere.
Negli ultimi decenni, infatti, l'enorme potenziamento dei mezzi di comunicazione ha consentito a una élite di imporre una vera e propria dittatura culturale attraverso strumenti di comunicazione sofisticatissimi, con cui viene corrotta la concezione di cosa sia "bello" e cosa "brutto", di cosa sia di valore e cosa banalità.
Nei bambini esiste una capacità giudicare se l'opera che vedono sia bella o meno: questa capacità nel tempo può essere sviluppata o, al contrario, annichilita dal contesto culturale.
Nella nostra società, molti perdono il senso critico o, anche qualora lo mantengano, davanti a un'opera che non trasmette alcun significato o che è brutta, stentano a dare un giudizio negativo. Infatti, la dittatura culturale attiva a livello psicologico una serie di meccanismi che inducono a non esprimere un giudizio o ad acquistare una percezione corretta scorretta del valore delle opere. Tale atteggiamento remissivo o acritico viene generato istillando nelle persone un complesso di inadeguatezza culturale, attraverso la persuasione che l'arte moderna e contemporanea, prevalentemente concettuale, sia qualcosa di troppo alto per essere alla portata di chiunque: cosi l'osservatore, anziché esprimere un eventuale giudizio negativo sull'opera, finisce per credere di essere semplicemente inadeguato a capirla.
Chi resiste all'idea della superiore comprensione dei critici rispetto agli altri, della necessaria correttezza dei loro giudizi, subisce dalla comunità indottrinata e plagiata una forma di "isolamento sociale": facendo leva sulla paura inconscia delle persone di restare sole, essa accorda l'integrazione nel contesto dei "colti" in cambio del tributo di valore che il singolo renda alle opere proposte.
Si tratta di un'operazione culturale aggressiva e massiccia, perpetrata mediante l'operazione congiunta di diversi attori: da una parte la critica d'arte ha contribuito a diffondere nel pubblico alcune opere e i loro autori dando a interpretare con la sua autorità che quelle opere così poco belle agli occhi del singolo (privo di una competenza specifica), siano capolavori; dall'altra, case d'asta, galleristi, direttori di istruzioni culturali e museali di vario genere, che con queste opere hanno creato un fiorente mercato, indirizzando investimenti indigenti in direzioni prescelte, a tutto discapito di altre forme di arte più autentica.
ÉLITE E MASSA
Le motivazioni di queste operazioni sono sostanzialmente due. La prima, influenzare il mercato dell'arte: esaltando dei finti artisti non solo si evita l'onerosa ricerca degli artisti veri, ma si creano fenomeni controllabili da parte di chi detta il gusto fenomeni che muovono ingenti investimenti di compratori collezionisti.
La seconda, più subdola, consiste nell'indirizzare il gusto estetico delle masse, quindi nell'esercitare su di esse un potere: la deformazione percettiva di cosa sia "bello", infatti, a lungo andare influenza la percezione stessa della realtà, diventa persuasione prima concettuale e poi morale, plagiando l'identità e la libertà della persona. Infatti, chi è in grado di imporre il proprio concetto di bellezza, è in grado di ammaestrare le masse, indirizzandole verso una "non cultura" priva di spessore, di stabilità e intelligenza, oltre che di valore estetico. È così possibile trasmettere contenuti scadenti, che progressivamente affievoliscono il senso del bello, addomesticando la capacità critica, e che allontanano dalle riflessioni profondo e ricche di significato - che la vera e grande arte può favorire: non a caso Dostoevskij scriveva che "la bellezza salverà il mondo" - e dalle emozioni autentiche, anziché educare la persona, si creano individui che rinunciano ad aspirare alle cose grandi, li si priva della capacità di discernere nella realtà ciò che è di valore, li si abitua a un'esistenza povera e volgare che, a sua volta, non sarà in grado di creare cose belle. In sostanza, sfruttando la scarsa educazione del senso critico, dapprima si distorce la percezione della realtà, presentandola come conoscenza più profonda della realtà medesima, attribuendole significati di cui invece è priva e, infine, la si giustifica sul piano estetico e ideale. In tal modo si plasma l'identità di un individuo che, pur persuaso di essere padrone di se stesso e, anzi, appagato dal ritenere di avere avuto accesso a una cultura "alta" che non tutti capiscono, è in realtà debole e manipolato delle élite intellettuali.
RIEDUCARE IL GUSTO
Le conseguenze per l'esercizio effettivo della libertà e la maturazione della persona sono dunque drammatiche. Com'è possibile opporre resistenza a tale violenza del potere culturale? È fondamentale educare. Senza educazione alla bellezza non vi è alcuna possibilità di discernere cosa è di valore da cosa non lo è. Ma questa educazione non è la comprensione eterodiretta del significato delle opere. Se così fosse, si ricadrebbe nell'idea che per "capire" l'arte occorre formarsi attraverso la mediazione di una élite intellettuale detentrice delle chiavi di lettura dell'arte.
Ciò non vuol dire negare l'importanza di studiare la storia dell'arte e il contesto storico in cui sono state prodotte le opere, ma bisogna utilizzare tali conoscenza per meglio comprendere opere che, già da sole, sono in grado di comunicare con la parte più interiore dell'uomo.
Occorre dunque innanzitutto aiutare a riscoprire la bellezza vera, ripartendo dai grandi maestri, dalla tradizione, a cominciare da quella classica, medievale e rinascimentale, senza denigrare le vere (poche) opere d'arte contemporanee.
La grandezza della vera arte sta infatti nella capacità di veicolare significati ed emozioni a prescindere da una pre-comprensione intellettualistica dalle intenzioni dell'artista; nel suo essere universale, in quanto, pur toccando ciascuno in relazione alla propria storia e sensibilità, è in grado di comunicare con tutti.
7 FEB. 2024 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7681
NON BASTA ISTRUIRE, BISOGNA EDUCARE di Maurizio Schoepflin
Nel 41° paragrafo dell'Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975), il santo Pontefice Paolo VI scrisse: "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni". Con queste parole papa Montini, oltre a porre l'accento su un'evidenza indiscutibile, andò deliberatamente a toccare una delle questioni più importanti e delicate dell'educazione nel suo complesso, quella relativa alla figura della persona investita del compito di insegnare.
LA FIGURA DEL MAESTRO NELL'ANTICHITÀ
Fin dall'antichità il ruolo del maestro è stato costantemente al centro dell'attenzione, in quanto si comprese subito che tale ruolo si situava al cuore di quella che i greci chiamavano paideia con humanitas, volendo significare in tal modo un'attività indirizzata alla trasmissione dei valori che esaltano la dignità dell'uomo. In merito all'educazione dei giovani, famoso è rimasto lo scontro tra i Sofisti e Platone: i primi interessati a insegnare le tecniche utili a ottenere il successo politico ed economico, il secondo preoccupato di costruire personalità orientate verso la verità, la bellezza e la bontà, fonti di quella felicità autentica che è punto di approdo della vera educazione. In questo contesto si situa La figura di Socrate, il maestro di Platone, che affascinò i discepoli non solo per le sue abilità e competenze, ma anche per la limpida coerenza di vita, che li fece affrontare con serenità persino la morte con cui la città di Atene lo condannò ingiustamente. La grande cultura classica comprese bene la decisiva rilevanza del maestro, e tutte le maggiori correnti filosofiche dell'antichità - dal Platonismo all'Aristotelismo, dall'epicureismo allo stoicismo - ebbero alla loro origine una personalità di rilievo che suscitò ammirazione e ottenne la fiducia dei discepoli, sia in ragione della propria sapienza, sia a motivo di una condotta di una vita virtuosa e coerente. Non va dimenticato, a tale proposito, che quasi tutti i filosofi greci ritennero che soltanto il sapiente fosse in grado di fare il bene.
LA NUOVA CONCEZIONE CRISTIANA DELL'EDUCAZIONE
Anche nell'ambito dell'educazione, l'avvento del cristianesimo comportò alcune significative novità, sebbene i cristiani seppero conservare e rinvigorire ciò che di buono avevano ereditato dal mondo classico. Tra i diversi elementi innovativi introdotti nella cultura del tempo dal nascente cristianesimo, ve n'è uno che condizionò in maniera particolare la teoria e la prassi educativa: si tratta della speciale accentuazione e dello straordinario risalto che i cristiani dettero al valore della coerenza personale, ovvero della corrispondenza fra professione di fede e testimonianza di vita. Riguardo a ciò, i credenti in Cristo ravvisarono in una parte della concezione classica della cultura e dell'educazione il pericoli della vacuità e dell'esteriorità, nonché il rischio di privilegiare gli aspetti formali rispetto a quelli sostanziali: per loro, il nodo cruciale di ogni discorso educativo risiedeva non tanto nella ripetizione di formule e concetti, quanto piuttosto nella capacità di testimoniare una verità e di suscitare, mediante questa testimonianza, un'autentica volontà di cambiamento e di conversione da parte degli ascoltatori. Di qui l'importanza attribuita all'esempio personale, quell'esempio che trovò nelle figure dei martiri, uomini e donne morti pur di non rinnovare il proprio credo, la più fulgida dimostrazione. Facendo tesoro di alcune riflessioni dei compianti Antonio Quacquarelli, noto patrologo, e Gino Corallo, importante storico della pedagogia, possiamo affermare che i cristiani non accettarono che esistesse alcuna cesura tra intelligenza e volontà, religione e morale; e se lo scopo delle antiche scuole di retorica era insegnare le tecniche della persuasione, l'obbiettivo dell'educazione cristiana era l'affermazione della coerenza tra la fede e i costumi.
Il vero maestro vive e insegna la piena armonia di pensiero, parola e azione; l'assenso razionale è necessario, ma non basta. L'adesione al vangelo esige che vi sia corrispondenza tra ciò che si crede (lex credendi) e ciò che si fa (lex operandi). L'educazione educativa del cristiano perde ogni carattere di fredda ripetitività, per assumere la fisionomia di un atto d'amore, che mette in gioco la vita stessa dell'educatore e dell'educando attraverso il meccanismo dell'emulazione, che spinse immediatamente i cristiani a identificare la figura del maestro con quella del testimone da imitare. Per i seguaci di Gesù fu subito chiaro che ciò che abilitava l'insegnamento non era solo e principalmente il bagaglio di conoscenze possedute dal docente, ma la sua autorità morale e la coerenza di una vita vissuta secondo la parola di Dio. Gli educatori cristiani mirano a una formazione integrale dell'uomo, secondo una concezione che, escludendo qualsiasi riduzionismo, guarda alle diverse componenti della persona umana, prime fra tutte quella spirituale e quella etica.
LA SITUAZIONE ATTUALE: IL PREDOMINIO DEL FUNZIONALISMO
Che cosa è rimasto oggi della grande lezione del pensiero classico e, soprattutto, della luminosa tradizione cristiana che dalle origini è giunta sino a noi anche attraverso la testimonianza e l'opera di straordinarie figure di maestri? Quanti sono coloro che pensano all'insegnante come un modello esistenziale, in grado di influenzare positivamente i propri discepoli e di fungere da punto di riferimento morale? Non v'è dubbio che il maestro debba essere competente e disposto a far crescere gli allievi nella libertà, ma ciò non significa ridurre il suo ruolo a quello di un esperto tecnologo o, peggio ancora, di un animo burocrate. Attualmente anche in ambito educativo e scolastico ha preso campo una sorta di funzionalismo interessato soltanto alle prestazioni e ai risultati economico - produttivi degli studenti e dell'insegnamento è spesso concepito come una mera trasmissione di tecniche: forse stiamo dimenticando la fondamentale differenza che intercorre tra educazione e istruzione. La competenza dottrinale e il ruolo professionale del docente non possono mettere in secondo piano la dimensione più squisitamente umana ed educativa della sua figura, soprattutto in un momento storico, qual è il nostro, in cui la presenza di maestri credibili si impone come un'urgente necessità. La sfida consiste, dunque, nel trovare uomini e donne che vivono l'esperienza educativa così come viene descritta da San Clemente Alessandrino con le seguenti parole: "la pedagogia secondo Dio è l'indicazione del cammino dritto della verità in vista della contemplazione di Dio e l'indicazione di una santa condotta in un'eterna perseveranza".
16 ENE. 2024 · VIDEO: Salviamo i nostri figli dalla scuola di Stato ➜ https://www.youtube.com/watch?v=6MsQNTL6IQc
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7672
LA REGOLA DI SAN BENEDETTO VALE ANCHE NEL RAPPORTO GENITORI-FIGLI di Loredana Basili e Maurizio Bertoni
L'inizio dell'anno è tempo di primi bilanci per i genitori con figli che da poco hanno intrapreso il percorso scolastico. Se questo discorso è vero per coloro con bambini che hanno da poco iniziato a frequentare la scuola pubblica, è tanto più urgente per i genitori che hanno deciso di intraprendere il percorso dell’istruzione parentale.
Spesso, quando si inizia un percorso simile, si è portati a mettersi in discussione e a porsi diverse domande: sarò un bravo insegnante per mio figlio? Da cosa è necessario partire? Quali sono gli obbiettivi che mi prefiggo? Che tipo di formazione voglio dare? Come conciliare il ruolo di genitore con quello di insegnante? È meglio essere un genitore/insegnante particolarmente rigido e severo o meglio amorevole e paziente?
Come genitori di bambini che da poco tempo hanno iniziato la scuola parentale, desideriamo condividere questa nostra, seppur breve esperienza, con l’auspicio di poter essere di aiuto per altri che si pongono o si sono posti gli stessi interrogativi, perché non "si accende una lucerna per metterla sotto il moggio" (Mt, 5,15) e perché anche altri, confrontandosi "vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt. 5,16).
Essendo una famiglia molto legata e devota di San Benedetto, ci è venuto naturale trovare una risposta alle nostre domande nel testo della Regola: quello che possiamo dire, è, che a nostro avviso, essa costituisce davvero un valido strumento di partenza, una sorta di prontuario, capace di rispondere alle nostre domande, semplicemente sostituendo alla voce "abate", quella di "maestro o genitore" e a quella di "monaci" la parola "figli". Non a caso il termine "regula" indicava in latino "l’asticella per misurare": essa risulta quindi un modo per misurare il proprio lavoro, per comprenderne i limiti e la portata.
La scelta della Regola è stata per noi però anche legata ad un aspetto pragmatico: essa ha finito per eliminare tutte le altre regole del mondo antico, in quanto più equilibrata e meno dura e allo stesso tempo ci è parsa una scelta "vincente", non perché debba dimostrare, in un futuro più o meno prossimo, dei risultati, ma perché ha già vinto, confermandosi "ricetta" di una religiosità, modo di vivere e di lavorare che ha attraversato i secoli, consegnandoci le nostre radici: quelle del mondo classico e del mondo cristiano.
LA REGOLA
Percorrere tutto, non sarebbe possibile in poche righe, ma basterà scorrerne pochi passi, in particolare l’inizio del Prologo e il secondo capitolo.
Già dall’incipit, infatti, appaiono chiari i soggetti coinvolti nell’educazione, i loro ruoli e il fine: "Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato".
Non è un caso che il Prologo si apra proprio con un invito all’ascolto, rivolto da un padre/maestro ad un figlio ("Ascolta, figlio"!), seguito da un’esortazione a quest’ultimo ad aprire "docilmente il tuo cuore". Non dobbiamo, infatti, dimenticare che la parola "abate" richiama proprio l’ebraico "abbà", "padre" e che l’apprendimento passa innanzitutto dal... cuore e non dalla testa, proprio perché vincolato ad un forte legame affettivo. Quante volte, al contrario, nel mondo di oggi sentiamo la negazione del ruolo di genitore/insegnante, quando ascoltiamo frasi come: "Non voglio rispiegare gli argomenti scolastici a mio figlio, il mio metodo sarebbe diverso da quello della maestra, si finisce poi per rovinare il rapporto tra genitori e figli".
In questa società, le figure del maestro e del genitore tendono infatti a differenziarsi sempre più, escludendosi vicendevolmente; la Regola, invece ci invita a riscoprire la nostra prima vocazione di genitori, cioè quella di educare e di insegnare: un lavoro che, aggiunge, deve essere fatto "con amore paterno", dove nell’aggettivo, rimarca ancora di più il ruolo educativo del padre di famiglia.
Ci dice anche come deve disporsi, da parte sua, il figlio/discepolo, chiamato ad "accogliere volentieri" e "a mettere in pratica con impegno".
"Volentieri" ed "impegno" sono due parole che sembrano incompatibili, laddove l’impegno viene visto solo come mortificazione o finalizzato ad altro.
Invece quella dell’impegnarsi volentieri, resta la chiave: trovare gratificazione nel proprio lavoro, nella propria fatica (in latino "labor" è propriamente la "fatica sotto cui si vacilla") di figlio/discepolo, resta la chiave del giusto orientamento; porsi in un atteggiamento positivo è il modo di santificare quel lavoro.
L’OBBEDIENZA AL MAESTRO/GENITORE
Infine, nel testo si delinea chiaramente l’obbiettivo da raggiungere: "in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza, a Colui dal quale ti sei allontanato".
L’obbedienza al maestro/genitore da parte del figlio/discepolo è l’obbiettivo da raggiungere, perché prefigura l’obbedienza poi al Padre/Maestro che lo salverà per la vita eterna. "Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore" recita il Prologo. In proposito, aggiunge la Regola nel secondo capitolo, definendo la figura dell’abate: "Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato col suo stesso nome" e "l’abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più".
È chiaro quindi che il tempo del nostro obbiettivo è l’eternità stessa e si capisce quindi la lontananza rispetto alla scuola che conosciamo, dove al centro è posto l’alunno solo e il maestro è un semplice facilitatore degli apprendimenti, dove manca non solo la presenza di Dio, ma quella di un vero progetto futuro a lungo termine. La vera domanda è: cosa, desidero per questo bimbo da qui all’eternità?
La risposta ci viene fornita chiaramente da questo frammento: "Perciò l’abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore, anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità". E ancora: "si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà eterne transitorie e caduche, ma pensi sempre che si è assunto l’impegno di dirigere delle anime di cui un giorno dovrà rendere conto" (cap. II, 4-5). La santità è e deve essere il nostro fine di genitori/educatori e, siccome "nessuno si salva da solo", la nostra stessa salvezza sarà legata a quella dei nostri discepoli/figli, di cui risponderemo davanti a Dio: "Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell’obbedienza dei discepoli e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge" (cap. II, 6-7).
I modi in cui noi genitori/maestri dobbiamo perseguire tal fine sono due: "mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo" e confermando con la condotta "che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole" (cap. II, 3-4).
ADATTAMENTO AL SINGOLO CASO
La Regola ci fornisce anche i metodi da adattarsi alle diverse personalità dei nostri figli/studenti, prevedendo semplici piani personalizzati (come si dice oggi) ante litteram calibrati sulle capacità e sul carattere di ognuno: "in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e ricettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani". E ancora, riferendosi al maestro, gli rammenta di doversi lui stesso predisporre ad un insegnamento differenziato, capace di stimolare i più meritevoli, senza lasciare indietro quelli con difficoltà: "bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo: perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza (cap. II, 12-13)".
A chi si domanda se essere un genitore /maestro rigido piuttosto che amorevole, la Regola risponde: "...alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia di
27 DIC. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7637
GESU' MAESTRO, IL LIBRO DI DON STEFANO BIMBI SULLA SCUOLA PARENTALE CATTOLICA di Fabio Piemonte
«La scuola dell'obbligo non esiste, mentre esiste il diritto da parte dei genitori di dare un'istruzione ai propri figli. È l'istruzione a essere obbligatoria, afferma l'articolo 34 della Costituzione, non la scuola. L'istruzione è in primis una responsabilità dei genitori». È quanto afferma don Stefano Bimbi nel suo volume Gesù Maestro, giunto recentemente alla seconda edizione. Collaboratore della Nuova Bussola con la rubrica "Schegge di Vangelo", don Bimbi ha fondato a Staggia Senese una scuola parentale cattolica che accoglie bambini dalle elementari alle medie per farli diventare uomini e donne maturi, radicati in Cristo, pronti a dare ragione della propria fede attraverso una risposta generosa alla propria vocazione.
A Staggia don Stefano arriva nel 2003. In un paesino di neanche tremila anime il gruppo giovani ha solo quattro ragazze. Ma il tenace sacerdote non si dà per vinto; anzi, rispolverando un po' di sana apologetica su temi storici e d'attualità, riesce a ridestare la fede e l'interesse nei parrocchiani per la Verità. Di qui fiorisce il centro culturale "Amici del Timone"; sorgono iniziative quali gli esercizi spirituali; nascono famiglie anche con più di tre figli che all'indottrinamento di Stato preferiscono l'insegnamento della Chiesa. Alla scuola fondata da don Stefano gli alunni sono molto seguiti, massimo dieci per classe, in modo da consentire a ciascuno «di sviluppare tutte le sue qualità, e aiutarlo nelle difficoltà». C'è poi lo "zaino leggero", ossia si lavora sostanzialmente in classe, così da avere tempo libero al pomeriggio per coltivare talenti e interessi e vivere la dimensione familiare. La giornata scolastica, dal lunedì al venerdì, è così suddivisa: ingresso alle ore 8:20, preghiera; lezioni 8:30-10:30; intervallo di mezz'ora; lezioni 11-13.
MACCHÈ CAMPANA DI VETRO!
Don Bimbi sfata poi alcuni falsi miti legati alle scuole parentali. In primo luogo l'accusa mossa dai suoi detrattori di far crescere i figli in delle "bolle" per l'eccessiva protezione che genererebbe una chiusura verso il mondo esterno. La realtà però dimostra il contrario: «I bimbi sono più socievoli crescendo in un ambiente sano in cui ciascuno è riconosciuto e apprezzato per le sue qualità. Non si formano gruppetti perché, essendo pochi, sono un unico gruppo». Insomma, di bullismo e standardizzazione del metodo alla scuola di don Bimbi non c'è traccia, perché ciascuno è invitato a fiorire nella propria dimensione personale. Senza troppa burocrazia, poi, gli alunni di "Gesù Maestro" fanno almeno una gita al mese, per cui a scuola ci vanno più che volentieri.
La maestra unica è anche mamma perché non c'è relazione educativa che non sia generata dall'amore. Inoltre, la divisione in classi omogenee consente di rispettare le caratteristiche di apprendimento differenti tra maschi e femmine, favorendo risultati migliori. Di qui i bambini, dati i tempi d'attenzione decisamente più ridotti rispetto alle bambine, possono finire prima la lezione e andare a giocare a pallone, mentre le ragazze hanno modo di intrattenersi con la maestra per far domande con serenità. Inoltre se «l'educazione è l'incontro della persona con il vero, il buono e il bello, in ogni materia non può mancare Gesù Cristo». Non si può perciò fare storia dimenticando che si divide in prima o dopo Cristo e il ruolo della Chiesa; letteratura; storia dell'arte o persino matematica senza tener conto che essa è il linguaggio col quale il Creatore ha progettato e realizzato il mondo. D'altra parte non bisogna dimenticare che le scholae le ha inventate proprio la Chiesa.
Don Bimbi evidenzia gli ingredienti fondamentali per la riuscita di una scuola parentale cattolica: un gruppo di amici radicati nella fede; mamme che siano casalinghe felici, perché la vocazione della donna è quella di essere sostanzialmente madre; famiglie con tanti figli, perché «i doni si accolgono. I figli sono doni. E più doni hai e più ringrazi chi te li ha fatti».
PREFAZIONE DI CAMILLO BORTOLATO
Don Bimbi valorizza in modo particolare il metodo preventivo di don Bosco e mette in guardia dai cattivi maestri infarciti di teosofia ed esoterismo, in particolare Rudolf Steiner e Maria Montessori, o di marxismo, come don Lorenzo Milani.
Perciò alla scuola di Staggia non ci si annoia, si coltiva «la disponibilità ad apprendere» - per dirla con le parole della prefazione di Camillo Bortolato - e si privilegia la visione d'insieme, e non quella analitica della scuola pubblica, decisamente fallimentare nella misura in cui mira «al controllo cognitivo attraverso programmazioni senza fine» e parcellizza la realtà, frantumandone così gli stessi saperi. Al contrario, osserva ancora Bortolato, «il Metodo Analogico invita tutti i bambini a volare alto nei cieli della conoscenza, come fa il pettirosso Pitti, perché proprio da lì alto si può capire tutto. La visione d'insieme, lo sguardo panoramico in anteprima, la leggerezza che permette di volare evitando il peso delle concettualizzazioni, sono i connotati che rovesciano la prospettiva in ogni materia di insegnamento. È in questo modo che la competenza si sprigiona come "insight", in forza delle analogie. I bambini per la loro semplicità hanno il dono di apprendere che tutti rimpiangiamo e a cui è faticoso ritornare. [...] La scuola Gesù Maestro di Don Stefano Bimbi ha accolto questo approccio con grande fiducia ed è per me una grande soddisfazione sapere che ora quei bambini possono vivere un tempo scolastico più gioioso, accorciando i tempi sui banchi per dedicarsi ancor più, come nel loro programma a tante altre attività per incontrare gente, visitare luoghi e vivere esperienze più ampie di vita.»
15 AGO. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7491
STUDENTI DEVASTATI DA SCHERMI E MEZZI DIGITALI: LA SOLUZIONE E' TORNARE AL LIBRO di Manuela Antonacci
Negli ultimi anni, l'impiego del digitale a scuola, ha avuto una forte accelerazione: si credeva che tutti ciò che era digitale potesse costituire il miglior mezzo di apprendimento, ma ultimamente è cominciato un graduale dietrofront sulla questione.
Inizialmente la politica educativa, soprattutto in Spagna, era basata sul sistema "one-to-one": un computer o tablet per ogni studente. Indicazione che però non si è mai concretizzata veramente e questo costituisce un dato non da poco. Se infatti, per anni, si è sempre detto che l'uso e l'abuso della televisione non favorisse certo l'apprendimento, ma anzi portasse a sviluppare un atteggiamento di passività, non si capisce come mai i colossi del Big Tech (Apple, Amazon, Microsoft, Google e Facebook -Meta-) ad un certo punto abbiano invaso le scuole. Forse per creare, semplicemente, un nuovo canale di business molto redditizio?
IL SUCCESSO INIZIALE DEI DISPOSITIVI DIGITALI
Inizialmente le scuole erano ossessionate dai dispositivi digitali che aprivano infinite possibilità di ludicizzazione che, in teoria avrebbero dovuto accrescere la motivazione negli studenti. Il libro sembrava un mezzo ormai relegato nel passato. La digitalizzazione della scuola, invece, sembrava indiscutibile. E anche a casa: i bambini hanno giocato e imparato davanti agli schermi. Tuttavia, la questione era più complessa di quanto sembrasse. Infatti man mano è emersa tutta una serie di possibili ostacoli all'apprendimento che una massiccia digitalizzazione delle scuole comporta. Si è progressivamente scoperto che i dispositivi digitali in classe ostacolano l'attenzione. È come se lo studente scomparisse dietro lo schermo sviluppando, peraltro, conoscenze limitate e superficiali. L'Hi-tech diminuirebbe anche il gusto per la lettura e la comprensione del testo scritto.
Ma più di ogni altra cosa, due sono i problemi principali che emergono dall'uso delle nuove tecnologie: nei bambini gli schermi producono isolamento e danneggiano la salute provocando un aumento di ansia e depressione e ingenerando una serie di problematiche legate al sonno. Ciò emerge da molte ricerche, una tra tutte, lo studio di Jean Twenge professore di psicologia alla San Diego State University, da cui risulterebbe che in età scolare, l'attivazione del sistema di anticipazione del piacere generato dalla dopamina darebbe origine a comportamenti di dipendenza. Di conseguenza, gli schermi non contribuiscono pienamente all'apprendimento, ma anzi distraggono e diminuiscono l'attenzione in classe, durante lo studio e la lettura. E ovviamente nella vita in generale.
ANSIA, DEPRESSIONE & CO.
I danni derivanti dall'uso eccessivo del tablet e dello smartphone, nei bambini, è documentato da un altro importante studio The Use of Social Media in Children and Adolescents: Scoping Review on the Potential Risks (2022) Si tratta di una rassegna di numerosi lavori in cui questi temi sono stati studiati a livello internazionale negli ultimi anni e che vengono analizzati dal mondo della pediatria italiana. Elena Bozzola, Giulia Spina e Rino Agostiniani hanno riscontrato sintomi di ansia, depressione e problemi del sonno, dipendenze, problemi legati al sesso, problemi comportamentali, problemi alla vista che colpiscono i minori che fanno un uso eccessivo degli schermi.
C'è anche un secondo studio del 2021 che è una comparazione tra la lettura su libri stampati e la lettura in formato digitale: A Comparison of Children's Reading on Carta. In esso May Irene Furenes, Natalia Kucirkova e Adriana G. Bus (dell'università della Norvegia e della Gran Bretagna) passano in rassegna numerose ricerche che dimostrano scientificamente la superiorità cognitiva della lettura di libri, o testi stampati, rispetto alla lettura di testi digitali. Per non parlare del consorzio Seattle Public Schools (ben 114 scuole) che ha citato in giudizio Big Tech per i danni inflitti ai suoi studenti sotto forma di dipendenza, ansia, depressione, ecc. direttori di questo consorzio di scuole ritengono che questi problemi di salute interferiscano con il rendimento scolastico dei loro studenti.
Insomma, studi ed esperienza pratica alla mano, sia nel mondo della scuola sia della ricerca, sta emergendo in maniera sempre più evidente, che le moderne tecnologie, per quanto accattivanti possano essere, non potranno mai sostituire i tradizionali metodi di apprendimento, in particolare la carta stampata e che anzi, il loro uso va decisamente limitato nella scuola, come nella vita.
5 JUL. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=617
TROPPA SCUOLA FA MALE di Mario Palmaro
Si, avete letto bene: troppa scuola può far male ai nostri ragazzi, ed è pura illusione pensare che più ore trascorse dentro l'edificio scolastico siano sempre un bene. Non è così e, in un certo senso, non è mai stato così nemmeno in passato.
PRIMI IN EUROPA
Ma andiamo con ordine e partiamo dai fatti. Oggi l'Italia si ritrova in testa a una classifica molto particolare: le scuole Primarie del Bel Paese - quelle che i comuni mortali e le persone di buon senso continuano a chiamare "elementari" - impegnano i bambini in una maratona di 980 ore per anno scolastico. è il dato più alto di tutta Europa. In Germania - dove la gente è notoriamente tutt'altro che pigra e men che meno ignorante - i kinder stanno in classe 698 ore. Qualche cosa come 300 ore in meno dei coscritti italiani, circa 60 giorni di differenza. La media europea per le scuole Primarie è di 755 ore all'anno, nettamente al di sotto della prassi italica. L'unico Paese con un monteore molto simile al nostro è la Francia (958), ma è notizia di queste settimane - invero clamorosa - che oltralpe si prepara una controrivoluzione dell'orario: il governo Sarkozy ha deciso di ridurre i giorni di scuola da 5 a 4, lasciando i fanciulli a casa il mercoledì, oltre che il sabato. Fra l'altro, è curioso notare che la "vacanza centrale" fu inventata proprio in Francia da Jules Ferry (1832-1893), il padre dell'insegnamento pubblico e gratuito, che volle la chiusura delle scuole il giovedì con lo scopo di "permettere ai genitori di dare ai figli un'istruzione religiosa fuori dagli edifici scolastici". Insomma: un curioso "giorno del catechismo" che nasceva dal giacobinismo francese, ma che alla fine conteneva anche aspetti positivi per la Chiesa e i cattolici.
IL CASO ITALIANO
Intendiamoci: non è detto che l'Europa sia sempre un modello, e nessuno ci obbliga ad allinearci con le abitudini del vecchio continente, che spesso sono lontane anni luce dal buon senso e dalla tradizione cristiana. Ma, in questo caso, è l'Italia a essere in errore. E a pagare un prezzo altissimo al peso enorme che la cultura marxista ha giocato - e continua a giocare - nella nostra società. [...]
TUTTO NELLA SCUOLA, NIENTE AL DI FUORI DELLA SCUOLA
Il tutto avviene sotto l'abile regia del Partito comunista italiano e nella sostanziale indifferenza del partito dei cattolici, la Democrazia cristiana. Anzi, il modello pedagogico marxista viene progressivamente assunto come valido anche in larghe fette del mondo cattolico. I "miti" della scuola progressista conquistano il cuore e la mente di politici, intellettuali, presidi di formazione cattolica. E fra questi miti, su tutti trionfa il "tempo pieno". Esso si fonda sull'idea - di impronta tipicamente hegeliana - che l'intera crescita umana e culturale del bambino debba essere guidata e gestita dallo Stato attraverso la scuola, e che il resto - a cominciare dalla famiglia - abbia un ruolo residuale, accidentale, sostanzialmente inadeguato, insufficiente. Come disse il filosofo Umberto Galimberti, columnist di Repubblica, «i genitori non sono in grado di educare i propri figli». È il capovolgimento della dottrina cattolica della "sussidiarietà", in base alla quale l'uomo, la famiglia e la società debbono essere liberi dì fare da sé tutto ciò che è buono e lecito, lasciando allo Stato il compito di intervenire solo dove il cittadino non ce la fa da solo. In questa visione la scuola non è il fulcro della crescila del bambino, ma un supporto al padre e alla madre, che non possono delegare. Per ragioni evidenti, il pensiero comunista e, in seguito, progressista e liberal-radicale, ha attaccato frontalmente questa idea, per strappare alla famiglia il timone dell'educazione dei figli. Non è un caso che la pur discutibile "Riforma Moratti" avesse introdotto la "straordinarietà" della scuola al pomeriggio, e che invece l'attuale Governo di sinistra abbia reintrodotto trionfalmente il "tempo pieno".
PIÙ SCUOLA, MENO FAMIGLIA: IN FUGA DALLA FEDE
In questo processo di tragica spoliazione, la cultura di sinistra è stata supportata da fette importanti del mondo cattolico, che ha creduto di aiutare la famiglia e soprattutto le fasce meno abbienti della società con un sistema scolastico ispirato all'idea del "parcheggio prolungato": più tempo i figli stanno in classe, e meno sono esposti ai pericoli del mondo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i famosi "pencoli" - che prima attendevano i nostri figli per le strade, come la droga o la devianza o il bullismo - adesso sono entrati trionfalmente nella scuola, che non sa come (e talvolta nemmeno vuole) reagire. Parole come ordine e disciplina, concetti come fede e pudore, sono stati defenestrati dai contenuti educativi, per essere rimpiazzati dall'ambientalismo e dal pacifismo. Un tempo il bambino imparava dal maestro laico dello Stato sabaudo il valore del sacrificio e il saluto alla bandiera del re; oggi il pupo si erudisce sulla raccolta differenziata e si inchina davanti alla bandiera arcobaleno. Non solo: imbottendo le liste dei docenti di Stato di uomini e donne di sinistra - oggi traghettati sulle sponde di uno squallido nichilismo gaio pansessualista - si è giunti a capovolgere la positività originaria del tempo trascorso in aula. Per cui oggi - salvo lodevoli eccezioni - più tempo il figlio trascorre in aula, più ideologia conformista assorbe. Meno resta in famiglia, meno educazione riceve, meno è introdotto in un cammino di fede cattolica.
UNA SCUOLA A MISURA DI ADULTO
A dar manforte all'idea totalizzante di scuola ha contribuito il modello di sviluppo capitalistico, esploso in Italia con il boom economico degli anni Sessanta. Occorreva spingere le donne fuori dalla casa, e convincerle non solo della legittima opportunità, ma addirittura della doverosa necessità di lavorare in fabbrica o in ufficio, abbandonando le tradizionali incombenze femminili, soprattutto educative e assistenziali. Questa strada ha prodotto spesso nelle madri lavoratrici dolorose lacerazioni - in realtà il lavoro va ad aggiungersi agli impegni domestici - e ha incentivato ancor di più l'idea di una scuola per tutto il giorno, tutti i giorni. Affiancata dal mito che "più asili nido aiutano la famiglia", cavalcato ancora una volta dai governi progressisti, con il beneplacito di cattolici un po' ingenui. Il risultato è che oggi noi abbiamo a che fare con modelli scolastici che non sono pensati per il bene dei nostri figli, ma - riconosciamolo - per i comodi degli adulti: da un lato, l'interesse della corporazione sindacale degli insegnanti, che ottenne ad esempio l'assurda riforma dei tre maestri per classe, al solo scopo di salvare posti di lavoro; dall'altro, i bisogni dei genitori, effettivamente costretti non di rado a lavorare entrambi. Certo, uscire da questa situazione non è facile. Ma, almeno, riconosciamo qual è il vero bene per i nostri bambini. Che cosa c'entra tutto questo discorso con l'apologetica e con la fede cattolica? Beh, un giorno fu proprio Gesù a dire: «Lasciate che i bambini vengano a me». Se la scuola li allontana sempre più dal Maestro buono e dai genitori, c'è davvero qualche cosa che non funziona.
21 MAR. 2023 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7350
BOB DYLAN VIETA I CELLULARI AL SUO CONCERTO PER GODERE LO SPETTACOLO SENZA DISTRAZIONI
In Italia poche scuole hanno preso sul serio l'invito del ministro dell'istruzione Valditara il quale non ha avuto il coraggio di imporlo, come invece ha fatto l'anziano cantante ai suoi fans
di Valerio Pece
A luglio Bob Dylan tornerà in Italia per cinque concerti (due a Milano, uno al Lucca Summer Festival, poi a Perugia per l'Umbria Jazz e infine a Roma), appuntamenti preziosissimi per i suo i tanti fan ma scanditi da un patto non negoziabile: sarà vietato l'uso dei telefonini. Non solo non si potranno fare foto né riprese video, ma gli eventi saranno «phone free», ovvero sarà necessario riporre gli smartphone in una custodia chiusa e assistita da personale dedicato.
Una condizione obbligatoria che il premio Nobel spiega con un comunicato elegante e convincente: «Avendo sperimentato questa modalità senza telefono durante i tour recenti, crediamo che essa crei un'esperienza migliore per tutti i presenti. I nostri occhi si aprono un po' di più e i nostri sensi sono leggermente più acuti quando perdiamo la stampella tecnologica a cui ci siamo abituati». Una consapevolezza che oggi si fa compassata e sapienziale, ma che è maturata attraverso momenti decisamente più tonici. Come quando, in un concerto a Vienna, indispettito dai flash e dal mare di telefonini alzati, interruppe di colpo Blowin' in the wind, bloccò con sguardo severo i suoi musicisti e interpellò la platea così: «Possiamo cantare o dobbiamo metterci in posa?».
SE DYLAN "FA SCUOLA" SOLO FUORI DALLA SCUOLA
Ma se Dylan reclama più rispetto per la sua musica, cosa dire delle scuole, luoghi in cui il deficit di autorevolezza è da tempo autoevidente? Ebbene, nei sacri luoghi di formazione, dove ben più che in uno stadio il rispetto e l'educazione dovrebbero regnare sovrani, il divieto degli smartphone in classe è considerato dalla maggior parte dei presidi assolutamente impraticabile. E che gli insegnanti si arrangino. E ciò malgrado la circolare emanata dal Ministro dell'Istruzione Valditara lo scorso 20 dicembre, la quale altro non faceva che ribadire quanto scriveva nel 2007 l'allora ministro del Pd Giuseppe Fioroni: niente telefonini in aula. Le parole di Valditara, cadute nel vuoto, appaiono quasi banali nella loro inconfutabilità: «Distrarsi con i cellulari non permette di seguire le lezioni in modo proficuo ed è inoltre una mancanza di rispetto verso la figura del docente, a cui è prioritario restituire autorevolezza».
Tranne lodevoli eccezioni, pochi dirigenti scolastici hanno preso sul serio l'input del ministro. Per pavidità, certo, ma anche per un problema di fondo. Con la sua circolare, infatti, l'allora neo eletto Valditara - probabilmente per non dare l'impressione di pronunciare diktat (il "pericolo fascismo" in Italia è sempre dietro l'angolo, specie in ambiente scolastico) - non ha introdotto sanzioni disciplinari per chi disobbedisce. Richiamando tutti ad un generico «senso di responsabilità» e invitando le scuole a scrivere regolamenti in autonomia - cosa che nella maggior parte dei casi non è avvenuta - il non prevedere sanzioni si è rivelato un grosso errore. Una mancanza di coraggio che i ragazzi pagano a caro prezzo.
Eppure, se i fan italiani di Bob Dylan vorranno ascoltare Like a Rolling Stone e altre perle, sapranno che qualcuno che non conoscono, a luglio, all'ingresso del Teatro degli Arcimboldi come nell'Arena Santa Giuliana di Perugia, sigillerà il loro sacro smartphone. Ma lo accetteranno di buon grado, sapendo che ciò avverrà per «godersi lo spettacolo a pieno, senza distrazioni di sorta». Insomma, il menestrello 81enne non fa sconti eppure "fa scuola" (ma purtroppo solo fuori dalla scuola).
NULLA DI DIVERSO DALLA COCAINA
Ma c'è di più. L'elemento sconcertante e non a molti noto che aggrava l'atteggiamento pilatesco dei presidi italiani, è quello relativo a ciò che è stato allegato alla circolare arrivata ai dirigenti scolastici di ogni ordine e grado. E cioè un'accurata relazione effettuata dalla VII Commissione permanente del Senato in cui vengono evidenziati gli effetti dannosi - fisici e psicologici - che l'uso eccessivo degli smartphone può provocare. L'elenco è lungo.
Si va dalla miopia al diabete, dall'ipertensione all'aggressività, dall'alienazione alla dipendenza, dalla diminuzione della capacità di concentrazione ai deficit di memoria. «A preoccupare di più», scrivono i senatori sulla base dello studio commissionato ad équipe di esperti, «è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali [...]: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l'adattabilità, la capacità dialettica». Sugli effetti dell'abuso di smartphone e videogiochi, nell'indagine-shock del Senato si legge che non c'è «nulla di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche».
Siamo di fronte alla più profonda rivoluzione antropologica del secolo, che andrebbe governata - come specifica il documento allegato alla circolare ministeriale - attraverso divieti inderogabili per scuola e famiglie. Qualche esempio di obblighi citati ma colpevolmente lasciati cadere nel vuoto: «Scoraggiare l'uso di smartphone e videogiochi per i minori di quattordici anni; rendere cogente il divieto di iscrizione ai social per i minori di tredici anni; prevedere l'inibizione all'accesso a siti per adulti sui cellulari dei minori; favorire la riconoscibilità di chi frequenta il web; vietare l'accesso degli smartphone nelle classi; educare gli studenti ai rischi alla navigazione sul web; [...] incoraggiare, nelle scuole, la lettura su carta, la scrittura a mano e l'esercizio della memoria».
Nulla di tutto questo è stato fatto. Oltretutto - ed è la beffa finale - dal documento ministeriale si legge che «dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite dal Senato non sono emerse evidenze scientifiche sull'efficacia del digitale applicato all'insegnamento». La chiusa finale della Commissione del Senato ha dell'incredibile: «Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri». Un necrologio alla scuola digital (almeno per com'è concepita ora).
In ogni caso, in barba agli esperti, alle circolari ministeriali e ai loro scottanti (e sottaciuti) allegati, molto prosaicamente va registrato che ogni mattina che Dio manda in terra un insegnante deve vigilare (e a volte sgolarsi) affinché gli studenti ripongano i cellulari nello zaino. Cosa che poi accade, sì, ma appena per quella manciata di minuti che servono per allungare di nuovo la mano e ricontrollare il proprio smartphone (si chiama "nomofobia", termine entrato nei vocabolari, e sta per stato ansia collegato alla paura di non essere connessi). Una giostra perenne, un ping pong frustrante che la scuola non merita.
Eppure la piccola-grande lezione di Bob Dylan ci dice che volere è potere. Se si vuole, si può. La risposta (al deficit d'attenzione e di rispetto) sembrerebbe allora non soffiare più nel vento, ma in regole semplici e chiare. Via il cellulare, via la dipendenza, via le nevrosi da disconnessione. Per poi domandarsi: «How does it feel?».
1 NOV. 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4394
LA SCUOLA DI STATO E' UN ABUSO!
La responsabilità dell'educazione è dei genitori (e della Chiesa)
di Stefano Fontana
Nell'Ottocento la Chiesa contestava allo Stato il monopolio dell'educazione. Partita persa dato che oggi essa è completamente in mano allo Stato. Partita persa perché incentrando la scuola sull'educando e non su Dio, si è diffusa l'idea di averla fissata su un obiettivo laico, che anche lo Stato poteva perseguire. Fu così che la scuola confessionale fu considerata "di parte" mentre la scuola statale fu considerata non di parte. La realtà è esattamente il contrario. Già nell'Ottocento lo Stato nelle proprie scuole insegnava una sua religione, la religione massonica di un umanitarismo universale sul tipo del libro "Cuore" in cui la parola Dio non viene mai pronunciata. Oppure la religione del prete apostata Ardigò: il positivismo. Oppure la religione del vate Giosuè Carducci e del suo "Inno a Satana".
LA DRAMMATICA SITUAZIONE DI OGGI
Oggi, però, lo Stato non è da meno. Anche oggi, in un clima di apparente pluralismo culturale ed educativo, nella scuola statale si insegna una nuova religione che, nel caso migliore, è la religione del relativismo e nel caso peggiore è quella del neo-catarismo. La penetrazione della ideologia del gender e dell'omosessualismo nella scuola pubblica è una penetrazione organizzata e sistematica che, in progressione, non lascerà nessuno spazio di libertà. Ma anche lasciando da parte queste forme acute di oppressione educativa, la scuola di Stato veicola un pensiero unico penetrante e invasivo:
1) elimina sistematicamente alcuni autori,
2) dà una visione antireligiosa del sapere,
3) assume un'ottica illuminista o neoilluminista,
4) tace su interi periodi della storia umana come il Medio Evo,
5) uniforma i testi scolastici alla medesima ideologia,
6) denigra la storia della Chiesa,
7) assume il criterio cronolatrico secondo cui il nuovo è anche migliore,
8) condanna con forme di damnatio memoriae personaggi e periodi storici considerandoli ideologicamente il male assoluto.
LA SCUOLA DI STATO NON EDUCA ED INOLTRE LIMITA LE PARITARIE
Leone XIII, nel 1879, davanti al dilagare della religione positivista nelle scuole italiane, scrisse l'enciclica Aeterni Patris, con la quale rilanciava la filosofia di San Tommaso. Egli aveva percepito la gravità del problema. Aveva capito che la scuola di Stato non era neutra ma governata da un assoluto naturalista e razionalista sostanzialmente anticristiano e che, se non contrastata, avrebbe distrutto l'educazione stessa. Oggi, molti si chiedono se la scuola statale educhi ancora. Molti rispondono di no e questo senza nulla togliere alla grande e solerte dedizione di molti insegnanti.
Molti si chiedono anche se il sistema della scuola paritaria sia sufficiente a ridare alla Chiesa degli spazi veri di azione educativa nella scuola. Un sistema pubblico integrato, come avviene nella scuola italiana a parte l'aspetto della parità economica che non viene garantito, sembrerebbe idoneo a quello scopo. C'è però da dire che la scuola cattolica paritaria viene inserita in un contesto che ne limita di molto la libertà. La programmazione delle abilità, i criteri di valutazione, i sistemi di valutazione, la tipologia delle prove sono elementi che la scuola di Stato impone alle scuole paritarie. Essi non sono mai neutri, ma funzionali ad un modello di educazione. Le circolari, gli orientamenti, le indicazioni per il recupero delle difficoltà, la normativa per le attività complementari o di sostegno sono emesse dallo Stato e vengono recepire dalle scuole paritarie cattoliche con scarsissima creatività. Molto spesso, a parte casi di forte identità nelle convinzioni degli operatori, nelle scuole paritarie si insegna nello stesso modo delle scuole statali, solo, magari, con la messa all'inizio e alla fine dell'anno scolastico.
LA SCUOLA NON DEVE ESSERE DELLO STATO, MA DELLA CHIESA
La scuola non può essere dello Stato. A questa concezione la Chiesa ha sempre opposto che la scuola è della Chiesa, e questo lo abbiamo già visto sopra, e che la scuola è delle famiglie. Se nella scuola e nell'educazione avviene qualcosa di molto più fondamentale che non l'apprendimento di alcuni rudimenti e comportamenti, la prima titolarità educativa appartiene ai genitori, che per primi si sono assunti il compito di educare i loro figli davanti a Dio e secondo i suoi insegnamenti. Nella scuola il bambino mette in rapporto la propria più profonda intimità con la verità e, così facendo, si mette in cerca dell'Assoluto, perché niente di relativo lo soddisferà mai più. Questo rapporto dell'educazione con l'assoluto, che era già stato messo in evidenza da Socrate, richiede che a sorvegliarne il processo siano i genitori, gli unici ad avere le chiavi dell'intimità dei propri figli non in assoluto ma secondo il progetto di Dio su di loro. I genitori cristiani hanno una sapienza del cuore rispetto alla vita dei loro figli che deriva loro dall'averli concepiti nella luce di Dio. Ma c'è anche una sapienza naturale che conferisce ai genitori questa capacità, anche se senza la fede rischia di non avere sufficiente sostegno nella vita concreta.
Intesa in questo modo, la responsabilità dei genitori nell'educazione dei figli coincide in fondo con la responsabilità della Chiesa. Rivendicando il primato dei genitori sullo Stato, la Chiesa non si limita a rivendicare un elemento di diritto naturale, ma vi aggiunge anche un motivo squisitamente religioso: i figli sono di Dio e, vicariamente, dei genitori che li educano nel progetto di Dio. Tramite la centralità della famiglia, la Chiesa riconduce il tema al suo vero cuore: la centralità di Dio.
A questo fine giunge in aiuto la dottrina della sussidiarietà, secondo cui lo Stato non può sostituirsi alla famiglia nei compiti che le sono propri per natura e per disegno divino, deve piuttosto aiutarla a perseguirli con le sue forze o con l'aiuto delle società superiori che tuttavia non deve mai essere di sostituzione, ma di aiuto sussidiario e supplente.
1 NOV. 2022 · TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4393
LA CENTRALITA' DI DIO NELL'EDUCAZIONE SCOLASTICA di Stefano Fontana
La scuola è lo snodo fondamentale di tutti i percorsi per la costruzione della società. Essa, educando o diseducando, contribuisce a formare i cittadini e il capitale umano. Come dice la Caritas in veritate, c'è una professionalità lavorativa e imprenditoriale ma prima c'è una professionalità umana da formare senza della quale anche quella lavorativa e professionale - e la cosa vale per tutti i campi - viene meno e si degrada. [...]
Normalmente si pensa che nell'educazione sia centrale la persona dell'educando e che, quindi, nella scuola sia centrale la figura dell'alunno o dello studente. La cosa ha una sua verità, dato che nella scuola si cerca la verità e la si trasmette alle nuove generazioni per la loro maturazione completa. Questa centralità dell'educando è stata riscoperta anche nella cultura cattolica tramite le correnti del personalismo cristiano del Novecento e, dopo il Concilio Vaticano II, la centralità della persona "principio soggetto e fine della società" ha ulteriormente accentuato questa impostazione.
LA SCUOLA È PER L'ALUNNO... MA L'ALUNNO PER CHI È?
Come si dice che la società è per la persona, si tende anche a dire che la scuola, che è come una società in piccolo, è per l'educando. Ma l'educando per chi è? Qui si dividono due modi molto diversi di intendere la scuola.
La Chiesa cattolica ha sempre sostenuto che la persona è per Dio e che, quindi, il fine ultimo della società lo si persegue ordinandola a Dio in tutte le sue dimensioni. Così è anche per la scuola. Anch'essa deve essere ordinata a Dio, che deve avervi un posto centrale. Solo in questo modo può essere perseguito anche il bene dell'educando, che non è il fine ultimo.
Si va invece imponendo la visione opposta: se la scuola ha come fine la persona, Dio non può trovarvi posto o, comunque, avrà un posto laterale e secondario ma non centrale. Il personalismo educativo ha quindi prodotto delle conclusioni non previste, ha favorito l'allontanamento di Dio dall'educazione ponendo al primo posto la persona. Ma in questo modo anche questo obiettivo è diventato impossibile perché senza Dio la persona non sa chi è, gli educatori non sanno chi sia l'uomo che essi devono educare. Si sono così configurate due tipi di scuola: una scuola che, avendo al centro Dio e assumendo come Maestro Gesù Cristo, si ritiene essere un luogo comunitario di educazione di quanti vi operano alla loro vocazione trascendente; oppure una scuola che si concentra orizzontalmente sui bisogni umani dell'educando, dimenticando la prospettiva religiosa.
La stessa scuola cattolica, col passare del tempo, ha di molto tralasciato la centralità di Dio nel processo educativo e si è adattata a modelli molto più laici. In tutti questi casi il punto di passaggio è stata la centralità dell'educando.
Nel XIX secolo gli Stati liberali europei iniziarono a togliere alla Chiesa il monopolio dell'educazione. Dal punto di vista della sostituzione della centralità della persona alla centralità di Dio, risulta incomprensibile la lotta contro di loro sostenuta dai Sommi Pontefici. Risulta invece comprensibile e addirittura auspicabile quella richiesta degli Stati. Il Giuseppinismo consisteva nel chiudere le scuole gestite dalla Chiesa dando vita ad un insegnamento pubblico statale. Questo insegnamento pubblico non era neutro. In esso mancava ogni riferimento a Dio e la sua filosofia di fondo divenne il Positivismo, che nella seconda metà dell'Ottocento era diventata una specie di religione civile degli Stati europei, a cui non si sottrasse nemmeno lo Stato italiano di Depretis e Crispi. La scuola pubblica statale, quindi, si contraddistingueva in negativo per la sua contrapposizione alla scuola della Chiesa, e in senso positivo perché mirava alla creazione di una mentalità e cultura nazionale capace da fare da collante spirituale laico allo Stato.
LA CHIESA HA IL DIRITTO E IL DOVERE DI GOVERNARE L'EDUCAZIONE PUBBLICA
Di fronte a questo processo di esclusione della religione cattolica dalla pubblica educazione e/o di subordinazione della stessa al potere civile, i Pontefici dell'epoca reagirono con vigore, rivendicando per la Chiesa un diritto originario di governare l'educazione pubblica.
Le proposizioni 45, 46 e 47 del Sillabo, annesso all'enciclica Quanta Cura di Pio IX dell'8 dicembre 1954, sono a tal proposito molto chiare.
Viene condannata la proposizione 45, che afferma: «Tutto il regime delle scuole pubbliche, nelle quali si educa la gioventù di qualsiasi stato cristiano, fatta eccezione soltanto in qualche modo per i seminari vescovili, può e deve essere attribuito all'autorità civile, e attribuito inoltre in modo tale, da non riconoscersi ad una qualsiasi altra autorità nessun diritto di immischiarsi nell'organizzazione delle scuole».
Viene condannata la proposizione 47 secondo la quale «La condizione ottimale della società civile richiede che le scuole popolari … siano sottratte ad ogni autorità, forza di regolamentazione, ingerenza della Chiesa, e che siano sottoposte al pieno controllo dell'autorità civile e politica».
Non sarebbe corretto valutare questa posizione solo come dettata da contingenze storiche, oppure sostenere che in precedenza la Chiesa aveva svolto un'opera di supplenza nei confronti di uno Stato assente che ora giustamente si prendeva le proprie responsabilità, oppure che la Chiesa aveva sbagliato a pretendere per sé quel ruolo centrale nell'educazione in quanto non era ancora emersa nel modo corretto la laicità del secolo. Queste ed altre spiegazioni non colgono una aspetto centrale di quella rivendicazione che, invece, la rende valida ancora oggi e per sempre.
L'aspetto centrale della questione è duplice: da un lato esso dice che non è possibile educare senza l'Assoluto Divino, dall'altro dice che se lo si nega si finisce per impostare l'educazione in base ad un altro assoluto, non-divino o anti-divino. Ciò che risulta, comunque, è l'impraticabilità della via personalistica, ossia di considerare la persona dell'educando come il centro e il fine dell'educazione e della scuola. Aver praticato questa strada e continuare a farlo è indice di ingenuità educativa.
LE SCUOLE NON POSSONO CHE ESSERE CATTOLICHE
Dicevamo che quella posizione dei Sommi Pontefici risulta oggi incomprensibile a chi ha intrapreso la strada della centralità della persona nella scuola. Ed infatti è una posizione che viene condannata e rigettata. Essa però poneva in forme adatte ai tempi un nodo difficilmente eludibile. Cosa può indurre una persona a penetrare così nel profondo di sé e trarne fuori verità talmente assolute da dare un senso ultimo alla sua esistenza se non Dio? Chi, se non Lui, può salvare il percorso educativo dal suo sempre possibile esito nichilistico? L'uomo non afferra se stesso se non viene a sua volta afferrato da Dio. Come giustificare un percorso di ricerca della verità se non in virtù di Colui che è la Verità? Se l'educazione è un percorso di libertà, non potrà essere certo la singola persona a liberarsi – dato che è proprio essa a manifestare il bisogno di essere liberata – ma Dio. La comunità degli educatori da dove riceve il diritto di intervenire così in profondità nella vita dell'educando se non per il bene assoluto di quella persona e chi può sostenere questo bene assoluto se non Dio, che è il Bene?
La Chiesa dell'Ottocento rivendicava a se stessa un diritto originario ed assoluto sull'educazione e sulla scuola. Le scuole non potevano che essere cattoliche. Ciò non per un desiderio di potere o per gestire un monopolio lucrativo. Se l'educazione è l'incontro della persona con il vero, il bello e il buono, poteva forse mancare da questo luogo Gesù Cristo? E il vero, il bello e il buono potevano darsi, sarebbero stati raggiungibili senza Gesù Cristo? Nella scuola la persona si incontra con Gesù perché vuole incontrarsi fino in fondo con se stessa, questo è il punto, e quindi lì la Chiesa deve esserci.
L'educazione della persona ha sempre un carattere assoluto, perché la ricerca dell'uomo non si ferma fino a che non arriva al fondamento ultimo del senso. Questo fondamento ultimo ha sempre carattere assoluto e non può essere l'uomo: un umanesimo assoluto è una contraddizione in termini e una cosa funesta. Ecco perché l'educazione o giunge a Dio o giunge ad un altro assoluto, che possieda l'anima dell'educando con la stessa forza ma non nella stessa libertà. L'educazione non mira all'autodeterminazione, essa mira sempre, in un caso o nell'altro, a consegnarsi a Qualcuno. Se questo è Cristo la consegna di sé significa anche il respiro della vera libertà, se è altri si sperimenta il fallimento, non meno assoluto però.
Per questi motivi è necessario che i cattolici ricomincino a pensare ad una scuola con Dio al centro. Questo vale sia per gli aspetti strettamente educativi, ma anche per l'organizzazione sociale e politica della scuola stessa nella società attuale. [...]
Se l'educazione è l'incontro della persona con il vero, il bello e il buono, in ogni materia non può mancare Gesù Cristo
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Autor | BastaBugie |
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